Lunedì, 14 tra giocatori e membri dello staff del Genoa sono risultati positivi al coronavirus, scatenando timori e preoccupazioni tra le altre squadre di serie A e facendo temere per una sospensione del campionato da parte della Lega Calcio.

Il focolaio scoppiato al Genoa è uno dei più gravi tra quelli individuati in Liguria che, con tremila casi di Covid attivi, è diventata una delle regioni più colpite dal coronavirus. La situazione a La Spezia è particolarmente preoccupante. Dalla metà di agosto, in città e provincia sono stati individuati più duemila nuovi positivi.

I numeri

La Liguria non è isolata. I casi di coronavirus sono da tempo in aumento in tutto il paese e, anche se le autorità sanitarie rimangono caute, l’Italia sembra oramai lentamente entrata nella seconda ondata di contagi. Gli ultimi dati del ministero della Salute mostrano che i positivi sono in aumento da nove settimane consecutive. Ad oggi, le persone positive al virus sono 50.630, mentre i morti fino ad oggi sono stati 35.845. La maggior parte degli attualmente positivi si trova in isolamento domiciliare, ma circa tremila sono ricoverati in ospedale, mentre 271 si trovano in terapia intensiva.

Si tratta di un’inversione di tendenza avvenuta nelle ultime nove settimane, dopo che per tre mesi l’epidemia aveva continuato a indebolirsi. Ai primi di agosto gli attualmente positivi erano poco più di 12 mila e i posti occupati nelle terapie intensive poco più di quaranta. In circa due mesi, questi numeri si sono moltiplicati di circa cinque volte.

Anche se è un incremento notevole, il numero totale di casi e la loro gravità sono ancora molto lontani dai picchi raggiunti al culmine dell’epidemia di marzo-aprile, quando in Italia c’erano poco meno di 110 mila persone che risultavano positive ai test per il coronavirus.

Il picco di marzo e aprile

Quest’ultima è una cifra che rischia di trarre in inganno. Il numero reale dei contagiati, infatti, era sicuramente molto più alto poiché i tamponi venivano eseguiti soprattutto ai pazienti che finivano in ospedale e si trovavano in gravi condizioni. Migliaia di casi sono quindi sfuggiti alla rilevazione ufficiale. Col passare del tempo, la riduzione dell’emergenza e l’aumento della capacità di fare test, anche casi meno gravi hanno iniziato ad essere individuati.

I numeri dell’epidemia oggi in Italia sono inferiori non soltanto a quelli toccati durante il picco, ma anche rispetto a quelli che hanno raggiunto in queste settimane i paesi europei più colpiti. In Spagna, ad esempio, vengono individuati oltre 10 mila nuovi casi al giorno, mentre nel Regno Unito ne vengono individuati più di 4 mila. In Italia i nuovi casi, pur in aumento, sono ancora inferiori a 1.500 al giorno.

La maggior parte degli esperti ritiene che sia molto improbabile che la seconda ondata raggiunga le proporzioni di quella che abbiamo visto a marzo. «Una grande seconda ondata non ce l'aspettiamo», ha detto ad esempio Massimo Galli, infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano, ospite di un convegno pochi giorni fa. Secondo Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, «la prima ondata non è mai finita. Abbiamo appiattito la curva ma tecnicamente l'azzeramento non è mai avvenuto». Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, ha scritto su Domani che la seconda ondata è già in corso, ma ha aggiunto che si tratta di un fenomeno diverso da quello che l’Italia ha vissuto a marzo.

Quasi tutti gli esperti sono concordi nel tracciare questa importante differenza. Quando a febbraio sono stati individuati i primi casi in Lombardia, infatti, la malattia era già in circolazione da settimane senza che nessuno se ne fosse accorto. Non erano ancora stata adottate misure di distanziamento, non erano disponibili ovunque flaconi di disinfettante e le mascherine erano indossate da pochissime persone.

I nuovi rischi

Se da molti punti di vista oggi siamo più preparati e più protetti dalla diffusione del contagio rispetto a sei mesi fa, c’è almeno un fattore che rende invece la situazione di oggi più complicata: la scuola. Durante la prima ondata dell’epidemia, le lezioni in Italia sono state sospese quasi immediatamente, il 4 marzo, poco più di una settimana dopo la scoperta dei primi focolai. Gran parte dell’epidemia si è quindi consumata senza che le autorità sanitarie si dovessero occupare dei potenziali contagi tra gli 8 milioni di studenti e il milione di insegnanti e altro personale scolastico.

Oggi, invece, le scuole sono aperte e nonostante le nuove misure di sicurezza rimangono luoghi dove il contagio si può diffondere rapidamente. In attesa dei dati ufficiali del ministero dell’Istruzione, due ricercatori, Lorenzo Ruffino, che collabora con il progetto di factchecking Pagella Politica, e Vittorio Nicoletta, hanno individuato 654 casi di contagio all’interno delle scuole, che hanno coinvolto un totale di 754 persone. Sessantotto casi hanno prodotto focolai, cioè hanno causato l’infezione di altre due o più persone.

Il probabile arrivo della stagione influenzale tra poche settimane, il freddo che spingerà le persone a stare al chiuso e a utilizzare più spesso i mezzi pubblici, pongono altre sfide nel contrasto all’epidemia. Se la seconda ondata non sarà tremenda come la prima, questo non significa che sarà semplice da gestire.

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