A sette mesi dal paziente 1 di Codogno i media continuano a snocciolare quotidianamente numeri su contagi, tamponi, decessi, ricoveri, terapie intensive e decessi, alimentando - come un sadico yo-yo - una schizofrenica alternanza di ottimismo o pessimismo sull’evoluzione della pandemia. Sui social da mesi si rincorrono narrative e immagini che spaziano dalla fila di camion dell’esercito a Bergamo alla folle estate dei giovani assembrati in discoteca senza mascherine, fino alle manifestazioni negazioniste.

Gli infuocati dibattiti degli esperti configurano un perfetto bipolarismo condizionato più dalla propria attività specialistica e dal proprio contesto locale che da una visione globale della pandemia e dal principio di precauzione che dovrebbe accompagnare le incertezze della scienza. Il grande pubblico viene ulteriormente disorientato da terminologie che appartengono al mondo della ricerca (carica virale) o da ambigui tormentoni quali “virus clinicamente morto” o “tamponi debolmente positivi”. La comunicazione istituzionale si è progressivamente ridotta all’osso: dal tragico bollettino di guerra quotidiano della protezione civile andato in soffitta a fine aprile all’eccellente report epidemiologico settimanale dell’Istituto superiore di sanità che resta tuttavia una pubblicazione per addetti ai lavori.

In questo contesto gli spettatori passivi si sono trasformati in protagonisti attivi nella produzione e sintesi di informazioni, esacerbando l’infodemia, ostacolando la consapevolezza di un fenomeno epocale e soprattutto la capacità di convivere serenamente con il virus senza rinunciare alle libertà individuali. Libertà che, tuttavia, richiedono alcune rinunce e un diverso stile di vita per garantire il pieno rispetto della tutela della salute altrui.

Ecco perché oggi è sempre più indispensabile riallineare la percezione pubblica su numeri e dinamiche di una pandemia che si prolungherà nel tempo, condizionando tutti gli aspetti della nostra vita, oltre che la tutela della salute pubblica e la ripresa economica del paese.

Come dobbiamo interpretare i numeri attuali dell’epidemia? A partire dalla fine di luglio, mese che aveva visto i nuovi casi settimanali stabilizzarsi intorno ai 1.400, i contagi sono progressivamente aumentati, in maniera molto netta a partire dalla seconda metà di agosto, quando il numero dei nuovi casi settimanali è salito a quota 10.000, espandendo il bacino delle persone “attualmente positive” da poco più di 12mila a oltre 44mila. Vero è che la maggior parte dei nuovi casi erano giovani e asintomatici, ma la loro permanenza in ambito familiare ha favorito il contagio di adulti e anziani, specialmente se fragili.

Infatti, mentre da fine luglio i pazienti ricoverati con sintomi sono aumentati da 732 a 2.365 e quelli in terapia intensiva da 40 a 222, è aumentata parallelamente l’età mediana dei contagiati: si era ridotta dagli oltre 60 anni dei primi due mesi dell’epidemia sino a meno di 30 nelle settimane centrali di agosto, ma nelle ultime settimane è risalita a circa 45 anni.

È vero che troviamo più casi solo perché facciamo più tamponi?  Solo in parte, perché questa è solo una delle determinanti, visto che il rapporto positivi/casi testati è aumentato dallo 0,8 per cento di fine luglio al 2,7 per cento nell’ultima settimana. In altre parole, se è vero che cerchiamo di più il virus, lui circola comunque molto di più. Ecco perché il potenziamento della capacità di eseguire tamponi è una strategia irrinunciabile per contenere la risalita della curva epidemica.

È vero che il virus si è rabbonito, considerato che i casi di oggi sono molto meno gravi di quelli di marzo-aprile? Assolutamente no: semplicemente oggi esploriamo la parte sommersa dell’iceberg, mentre in primavera, in assenza di attività di screening per scovare gli asintomatici, potevamo intravederne solo la punta, ovvero i soggetti più gravi e ospedalizzati. Il virus è sempre lo stesso, stiamo solo vivendo una fase diversa dell’epidemia perché dal 3 giugno, con la ripresa della mobilità interregionale e la riapertura dei confini, siamo di fatto “ripartiti dal via”, un po’ come nel gioco dell’oca. Ecco perché ogni confronto dei numeri attuali con quelli della fase 1 è inappropriato, spesso strumentale e non tiene conto delle dinamiche dell’epidemia.

Siamo davanti a una seconda ondata? Per chi teme di rivedere le scene drammatiche di marzo-aprile, la risposta è sicuramente no; se invece intendiamo un progressivo incremento dei contagi che si riflette gradualmente sui ricoveri e sulle terapie intensive, la seconda ondata di fatto è già in atto. Tuttavia non potrà esserci alcun effetto sorpresa per la sanità e per la società civile, totalmente impreparate di fronte al violento tsunami della fase 1, di cui non abbiamo mai conosciuto la fase preliminare. Oggi la sorveglianza epidemiologica monitora continuamente la risalita della curva, i posti letto ospedalieri e di terapia intensiva sono state potenziati, tutte le strutture sanitarie dispongono di percorsi Covid-19 e abbiamo ampia disponibilità di mascherine e dispositivi di protezione individuale.

In questa fase di circolazione endemica del virus, ovvero di convivenza sociale con un ospite indesiderato, oltre al potenziamento dell’attività di testing, tracing, treating, sono i nostri comportamenti individuali che contribuiscono a evitare ogni forma di sovraccarico ospedaliero o territoriale. Ovvero solo la combinazione tra un sistema sanitario adeguatamente potenziato e una popolazione diligente potrà tenere bassa l’altezza della seconda ondata, prolungandola nel tempo ed evitando così il sovraccarico dei servizi ospedalieri che, quando eccessivo, aumenta la letalità. Sì, perché bisogna accettare, oltre ogni ragionevole dubbio, che un consistente numero dei decessi da Covid-19 nei mesi di marzo e aprile è stato causato dall’enorme sovraccarico ospedaliero: narrative differenti sono frutto di ignoranza o di malafede.

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