I “connection man” hanno legami anche con altri gruppi criminali e una volta in Italia, le donne sono costrette a prostituirsi. BeFree è una cooperativa che dal 2007 lavora contro tratta e violenze. Rappresenta l'Italia nel progetto Assist che ha permesso a oltre 50 donne di uscire dallo sfruttamento
- «Quando parti non dici a nessuno che stai lasciando il paese, ma quando oltrepassi il primo confine e vedi tante altre donne che faranno il viaggio con te, capisci che i connection man sono organizzati e furbi», sottolinea Stacy.
- Nel 2019 le Ong, con il supporto del governo, hanno assistito 1.877 vittime di tratta, un dato in aumento rispetto alle 1.373 vittime assistite nel 2018
- BeFree opera dal 2008 anche all'interno del Cpr di Ponte Galeria, a una ventina di chilometri dalla città di Roma, per realizzare attività di emersione a favore di donne che potenzialmente hanno vissuto situazioni di tratta.
Ancora un altro po’ sotto le coperte a sgranchirsi i muscoli e poi in piedi per un caffè, ché fuori splende il sole. Non si arrende Isabella*, originaria della Nigeria, fuoriuscita da un percorso di accoglienza dopo aver conosciuto da vicino la violenza della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. È lei stessa a raccontare, mentre compie i piccoli e calmi gesti del risveglio in una struttura protetta, la tanto agognata normalità in un video realizzato da Maria Iovine per promuovere il progetto europeo “Assist”, rivolto a 50 donne già uscite dallo sfruttamento, in Irlanda, Italia, Scozia, Germania, Spagna e Belgio.
Isabella ha teso la mano a chi gliela chiedeva, si è fidata di chi le diceva che avrebbe potuto aiutarla, ha attinto la forza per ripartire proprio da quello che le è accaduto. «Il mio sogno è sposare un uomo ricco che mi ami per quello che sono, che mi ami anche per il mio passato» racconta. Anche Naomi* ha attraversato lo stesso inferno ma adesso studia per ottenere un diploma e poter diventare infermiera - un sogno condiviso da molte donne con lo stesso vissuto - perché, dice, «sono stata nel bisogno e so cosa significa». Ci sono le storie di migliaia di donne nelle voci di queste due testimonianze. In Italia, secondo il Dipartimento per le Pari opportunità, che coordina gli sforzi di protezione, nel 2019 le Ong, con il supporto del Governo, hanno assistito 1.877 vittime di tratta, un dato in aumento rispetto alle 1.373 vittime assistite nel 2018. Il 50 per cento dei fenomeni di tratta è rappresentato da casi a scopo di sfruttamento sessuale, un dato degno di nota perché fa della donna, che nel traffico viene ridotta a corpo inerte, lo strumento per eccellenza attraverso cui perpetuare la struttura di controllo su cui si fonda la società patriarcale. La tratta a fini di sfruttamento sessuale è una delle espressioni più acute della violenza contro le donne, che grazie alle reti di supporto, capiscono le offese subìte e le usano per resistere e ricominciare. Una di queste reti è BeFree, la cooperativa romana che dal 2007 lavora contro tratta, violenze e discriminazioni e che nel progetto Assist ha rappresentato l’Italia, coinvolgendo Isabella e Naomi in un corso da operatrici antiviolenza. BeFree opera in un’ottica di genere, traghettando le donne verso percorsi di autocoscienza ed empowerment, ponendo al centro la formazione anche delle operatrici: «Nella nostra cooperativa, i percorsi di operatrice antiviolenza e di operatrice antitratta sono connessi imprescindibilmente, perché secondo il nostro sentire, la tratta è fortemente legata al genere e alle disparità che le donne a livello trasversale subiscono in quanto donne». A parlare è Francesca De Masi, tra le fondatrici di BeFree, operatrice antiviolenza e antitratta formatasi nei collettivi femministi di autocoscienza negli anni universitari. BeFree opera dal 2008 anche all'interno del Cpr (strutture usate per identificare e deportare dal territorio italiano i migranti irregolari) di Ponte Galeria, a una ventina di chilometri dalla città di Roma, per realizzare attività di emersione a favore di donne che potenzialmente hanno vissuto situazioni di tratta. Attraverso il loro sportello, le operatrici tentano un primo avvicinamento con le donne detenute. Rompere il muro di paura, innalzato tra rapimenti, fughe, arresti e deportazioni coatte, non è semplice. È quello che è accaduto a Stacy*, che solo dopo un po' di tempo, ha deciso di condividere la sua storia con Francesca e il team di BeFree. «Quando ho visto Francesca non riuscivo a guardarla negli occhi, non sapevo se lei potesse aiutarmi. Ero spaventata perché nel deportation camp di Ponte Galeria c'era solo la Polizia e ho temuto che anche lei fosse un’agente», racconta. Dopo tanto peregrinare, oggi la donna vive in una struttura protetta insieme al suo figlio di un anno, ma presto si apriranno per loro le porte di uno Sprar. Se le si chiede cosa abbia imparato dal percorso di BeFree, risponde fiera «Io sono BeFree. Ho imparato che devi essere libera, autonoma, che non devi dipendere da un uomo, che gli uomini possono anche non fare del male». Stacy oggi ha un fidanzato, ma è concentrata sugli studi, che ha dovuto interrompere in Nigeria, quando è iniziato il suo viaggio. Nel suo paese di origine studiava medicina, ma adesso sta ricominciando il ciclo delle scuole medie, perché il riconoscimento dei titoli scolastici nigeriani in Italia è molto complesso. Sogna di diventare una dottoressa o un'infermiera specializzata, «ma mi diverte anche fare acconciature e truccare le mie amiche», sorride. Come per molte altre donne, il viaggio di Stacy dalla Nigeria è stato molto lungo e una delle ultime tappe è stata una delle tante connection houses in Libia. È qui che le donne vengono raccolte, in dei veri e propri bordelli – oggetto di denunce da parte di tante ong che lavorano con le donne migranti - prima di salire sui barconi. «Quando parti non dici a nessuno che stai lasciando il paese, ma quando oltrepassi il primo confine e vedi tante altre donne che faranno il viaggio con te, capisci che i connection man sono organizzati e furbi», sottolinea Stacy. A causa della forte struttura e dell'appoggio dei gruppi criminali italiani, le reti di trafficanti nigeriani continuano ad essere le più aggressive. È la Nigeria il paese da cui arriva il numero più alto di donne ridotte a vittime di tratta. Secondo le stime delle organizzazioni internazionali, fino ai tre quarti delle donne e dei minori non accompagnati di nazionalità nigeriana arrivati in Italia nel 2018 sono “vittime” di tratta. «Una volta arrivata in Italia sono scappata e ho chiamato subito il trafficante di cui avevo il contatto» continua Stacy. I trafficanti, infatti, sottopongono a sfruttamento sessuale donne e ragazze usando la coercizione basata sull'esistenza di un debito e rituali vudù, ecco perché, in preda alla paura, le donne finiscono per mettersi subito in contatto con loro, una volta giunte a destinazione.
Il condizionamento di queste figure è tale da orientare le donne anche nelle richieste di accoglienza. Nonostante esistano percorsi di protezione per le persone che hanno subito sfruttamento sessuale in Italia (garantiti dall'art.18 del DL 286/1998), molte sono le donne che, al loro arrivo, presentano invece domanda di asilo, sotto pressione degli sfruttatori, che così, con in mano un permesso di soggiorno regolare, possono continuare a sfruttarle più agilmente.
Nonostante i progressi del “sistema anti tratta” in Italia negli ultimi vent'anni, le criticità sono ancora tante, molte derivanti da uno scarso coordinamento nazionale tra gli uffici delle questure.
Al primo posto c'è la difficoltà nell'identificazione preliminare di possibili vittime in luoghi di arrivo o di transito delle donne, come agli sbarchi, nei centri di accoglienza, nei presidi sanitari. A mancare in questi luoghi è anche una formazione adeguata del personale e delle forze di Polizia, che permetta di individuare gli elementi identificativi della tratta a fini di sfruttamento sessuale.
Ma ad aver ostacolato di più l'accertamento delle condizioni di migliaia di donne negli ultimi anni è stato l'impianto repressivo delle politiche migratorie nazionali, volto ad indagare più lo status giudiziario che non quello di vittima di tratta. Complici i decreti Salvini, modificati in Senato il 19 dicembre scorso, moltissime donne sono precipitate rapidamente nell'irregolarità divenendo subito disponibili alle organizzazioni criminali. Eppure, nonostante questo percorso di paure a ostacoli, c'è chi trova il coraggio di raccontare e nonostante la preparazione, spesso questa forza lascia le stesse operatrici senza fiato. Marta Mearini lavora con BeFree: «Sono tante le difficoltà che le donne in condizione di vittima incontrano durante il viaggio e al loro arrivo, per questo io sono sempre così ammirata e colpita dalle loro storie e dalla loro forza e determinazione (...) Ed è per questo che piuttosto che definirle vittime, ci piace di più indicarle come “sopravvissute” a tratta». Margareth* è partita dalla Nigeria quando aveva 16 anni. Dopo nove mesi di viaggio, è arrivata in Spagna e dopo varie traversie, anche lei ha conosciuto l'incubo di Ponte Galeria. Per fortuna solo per poco. Grazie al sostegno di BeFree, «ho capito quale fosse la strada migliore per me, quale fosse il mio destino. Grazie al gruppo di BeFree, ho iniziato a parlare» racconta. Anche Margareth è stata per se stessa un motore di cambiamento. Oggi è infatti autonoma e studia per diventare infermiera, il sogno ricorrente di aiutare dopo aver tanto ricevuto. Ma ora è anche tempo di lavoro e dopo questa ondata di Covid-19, la donna spera che con il nuovo anno tutto ricominci a muoversi. «Ora devo cercarmi un lavoro, perché mi serve per vivere. Nella mia vita ho sempre lavorato e anche se ho scoperto che un futuro diverso passa dallo studio, devo pensare a mantenermi». Margareth è una donna indipendente e forte e anche se ha un fidanzato, il pensiero di una famiglia neanche la sfiora: «Sono ancora giovane e desidero pensare a me. Il mio corpo è ancora giovane e io non ho alcuna voglia di disturbarlo».
*Per motivi di sicurezza, i veri nomi delle donne sono stati modificati
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