Gigi Riva è stato un giocatore straordinario e un uomo ammirevole, di grandi, mai ostentate virtù. «I giocatori come Riva», ha scritto Gianni Rivera che se ne intende, «sono come i classici, avrebbe potuto giocare in qualsiasi epoca e sarebbe stato forte comunque».

Proprio così. In quello che, forse, è il suo appellativo più azzeccato, il giornalista sportivo Gianni Brera lo definì “Rombo di tuono”. Quel Rombo non è imitabile, ma fortunatamente rimane nelle registrazioni delle migliori radio e telecronache e in alcune bellissime, so che devo aggiungere “ingiallite”, fotografie. Nella mia mente di giovane spettatore è rimasta la foto memorabile e, qui piacevolmente e compiaciutamente cedo alla retorica, sublime della rovesciata del 1970 in Vicenza-Cagliari. Inarrestabili i suoi scatti, inarrivabili i suoi colpi di testa, Riva fu molto di più che un’ala sinistra. Il torinista che è in me lo ha talvolta rivisto in Paolino Pulici.

L’amante del calcio si chiede che cosa avrebbe fatto in una grande squadra quel giocatore che fece grande il Cagliari, che diede un contributo decisivo a quel prezioso scudetto, quel realizzatore che segnò 35 gol in 42 partite della Nazionale. Sono domande alle quali Riva avrebbe risposto con un mezzo sorriso, alle quali rispose nei fatti scegliendo Cagliari, decidendo di vivere la sua vita in Sardegna, senza nessun bisogno di luci della ribalta.

Lo stile

Immagino e mi auguro che tutti coloro che hanno fatto sport, anche soltanto a livello dilettantistico, abbiano allora apprezzato e, forse, anche cercato di imitare alcune qualità della persona Riva di cui era portatore, senza cedimenti esibizionistici, e alle quali rimase sempre fedele nella sua storia professionale: onore, serietà, correttezza.

Non l’ho mai visto fare falletti balordi e cattivi né trascendere in sceneggiate vittimiste quando, per fermarlo nelle sue impetuose scorribande, gli avversari ricorrevano ai falli, anche brutti e pericolosi. Gli spaccarono una gamba. Non si abbandonò mai a esultanze eccessive in scherno agli avversari che aveva superato con classe, abilità e potenza. Sardo di adozione, con quella scelta combinava il meglio dello stile sportivo (e non solo) inglese: fair play, che sopravvive a fatica.

La riservatezza e lo stile ne scolpiscono l’umanità. Rendono persino lecito pensare che coloro che diventano e rimangono grandi nello sport sono debitori dei loro spesso insuperati successi non solo a qualità fisiche, ma anche, in special modo, a qualità mentali e morali.

Le virtù

Persone della mia età non fanno nessuna fatica a mostrarsi consapevolmente laudatores temporis acti. Tempi nei quali c’erano giocatori con i quali Riva ha giocato e può essere paragonato, almeno Gianni Rivera e Sandro Mazzola.

Non è solo nostalgia di adolescenza e giovinezza, ma la nostalgia, il ricordo doloroso di un tempo che fu, esiste eccome. Si tratta di ricordo per valori che c’erano anche nel calcio, insegnati, condivisi e alimentati da grandi allenatori che non li sacrificavano sugli altarini di più o meno immeritate vittorie strappate con qualche trucco, qualche furbata, qualche favore arbitrale.

Con altri giocatori della sua epoca, Riva condivideva una visione che collegava le vittorie certo ambite all’impegno, al rischio, al sacrificio, alla lealtà. Sono virtù difficili. Sono anche tratti caratteriali che si possono imparare. Più probabile è impararli se qualcuno sa e vuole insegnarli, genitori, amici, colleghi. Forse non basteranno a creare dei vincenti, ma persone decenti sì.

Con quei valori Riva è stato vincente e più che decente. Non mi sembra che i numerosi apprezzamenti abbiano colto appieno entrambi gli elementi. So che lo ricorderò così (e lui ne sarà lieto).

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