Toccò alla voce di Sandro Ciotti, non ancora così roca, dire via radio all’Italia che lo scudetto si era posato sulla Sardegna, la regione che per il resto del paese era “una questione”, dove la polizia aveva inviato i Baschi Blu per combattere il banditismo, i furti di bestiame e i sequestri di persona. Il Cagliari era campione d’Italia, anno 1970, il calcio aveva deciso di dare un bacio a una terra derisa e offesa dai cori negli stadi, una terra che aveva visto arrivare controvoglia un ragazzo lombardo, e che alla fine lo aveva eletto capopopolo. Questo è stato Gigi Riva per la città da cui non è mai più partito. Non se ne andò per soldi da giocatore e dopo non se è andato per nostalgia.

Nostalgia di cosa, poi. La Sardegna è diventata il suo guscio, la sua seconda pelle, si direbbe una corazza. Il posto migliore che potesse trovare a guardia dei suoi silenzi, e lui guardiano della stessa riservatezza popolare. Gianni Brera lo aveva prima chiamato Re Brenno e successivamente gli aveva dato il soprannome più famoso nella storia del calcio italiano, Riva è diventato Rombo di Tuono, come un capo tribù, perché un tuono pareva con il numero 11 dietro la schiena e con il suo calcio così stracolmo di energia. Per i compagni era invece Hud, come il Selvaggio di Paul Newman, lui che era solito consegnare alla Domenica Sportiva frasi solenni e tragiche, parole dolenti e meravigliose come: «Io non ho nessuno a cui dedicare nulla».

Era figlio di un operaio che prima ancora era stato sarto e barbiere. Mentre lavorava in fonderia, una scheggia di ferro uscita dalla pressa lo aveva trapassato e ucciso così, come in una guerra. Mamma Edis lavorava in filanda e arrotondava coi servizi domestici nelle case dei ricchi. Riva di notte avrebbe avuto allora gli incubi per tutta la vita, sognava gli anni passati dai preti in collegio.

È stato tre volte capocannoniere in serie A, campione d’Europa con la Nazionale nel 1968 con un gol in finale contro la Jugoslavia, ma soprattutto uno degli attori protagonisti della semifinale Italia-Germania 4-3 ai Mondiali del 70. Segnò uno dei gol e poi esultò piegandosi sulle gambe e sulla schiena, come deposto da una croce.

È stato tutt’insieme la forza bruta in campo e la gentilezza fuori. Da ragazzo raccoglieva ritagli di giornale su Lorenzo Bandini, un pilota morto in un incidente a Montecarlo, e su Luigi Tenco, il cantante suicida a Sanremo. Gli piaceva prendere di nascosto la macchina e andare a correre, correre tanto, andava a rifugiarsi tra Pula e Villasimius tenendo lo sguardo dritto sulla strada, oltre i bigliettini di carta che le ragazze gli lasciavano sul parabrezza sotto i tergicristalli.

Quando portò la sua faccia piena di spigoli in Sardegna, al popolo parve un messia mandato da qualcuno a dire che si poteva essere magnifici anche così, da antagonisti e ruvidi. Trovarono in Gigi Riva quel che Fabrizio De André sarebbe stato con le canzoni, un fratello d’anima nato altrove, un fratello venuto per restare. Ogni volta che veniva corteggiato da una grande squadra, i compagni gli facevano un contro-pressing. Una volta Mario Martiradonna lo pregò con l’argomento giusto: «Ti prego, rimani, così mi compro la cucina».

È stato un fumatore accanito, un commensale solitario, la sera a cena da Giacomo, dove tutti mangiavano il pesce e lui il minestrone di verdure. Ha avuto una carriera tormentata da infortuni. Una volta Gianni Mura gli ha chiesto che cosa sarebbe diventato se non avesse fatto il calciatore. Riva ci pensò un attimo e rispose: «Il contrabbandiere». È stato il totem di una generazione e l’angelo custode di quelle dopo. Ha fatto il padre nobile in Nazionale nel ruolo del capo delegazione, forse era dirigente accompagnatore, in realtà non importava a nessuno quale fosse la sua carica, c’era e questo bastava, era Giggirriva, tutto attaccato.

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