Nella scorsa settimana, la politica europea si è concentrata sugli esiti del voto in Slovacchia. Il vincitore, Robert Fico, è stato ritratto come un autentico nazionalista e sovranista. Considerando la sua retorica non propriamente inclusiva su diritti e migranti, il suo ritorno al potere parrebbe l’ennesimo atto di un copione già recitato sui palcoscenici di mezzo continente. Salvo presentare, in questo caso, una variante meritevole di attenzione: il prossimo primo ministro Slovacco è alla guida di un partito di sinistra.

Siamo soliti credere che gli afflati di “nazionalismo” e “sovranismo” tendano a calamitare, per primi, coloro che sono rimasti privi di punti di riferimento e che cercano riparo negli approdi chiari e sicuri offerti dal conservatorismo. Ma lo scenario che oggi si manifesta ci impone di dissociare i due termini da ideologie politiche singole e prospettive uniformi, finanche a indurci a scinderne i significati: nazionalismo e sovranismo non rappresentano più sinonimi perfetti.

Si potrebbe infatti sostenere che gli afflati nazionalisti di oggi abbiano ormai superato il proprio apogeo: sempre più di frequente, governi “patrioti”, eletti con la promessa di fare della propria nazione una “fortezza inespugnabile” all’urto di epocali invasioni demografiche, economiche e militari, si accorgono che erigere mura non risolve granché. Le difficoltà interne permangono, anzi si acuiscono nell’isolamento, mentre il “nemico” non sembra intenzionato ad allentare l’assedio. Arriva così il tempo in cui chi si pensava al sicuro si trova costretto a cambiare disegno: compiendo sortite o cercando alleanze.

Una riflessione sullo stato

Questa condizione di separazione impone però una chiara riflessione: siamo sicuri che oggi lo stato sia l’attore più preparato a rispondere alle sfide della società contemporanea? La dimensione della nazione sembra oggi troppo ristretta per riuscire a proporre risposte efficaci a problemi che si proiettano su scala planetaria. Al contempo, appare troppo larga per saper interpretare in maniera puntuale le istanze comunitarie che si articolano al suo interno, attraverso forme sempre più variegate e specifiche.

Che lo stato nazione sia una istituzione “superabile” in un mondo globalizzato lo avevano già intuito i firmatari del manifesto di Ventotene nel 1941. Ad esaminare le cronache della storia recente, parrebbe tuttavia che siamo ancora lontani da una tale utopia; al contempo, forse, ci troviamo più prossimi a riconoscere il bisogno di nuove dimensioni di sovranità, immaginate al di là delle frontiere tradizionali.

Cos’è il sovranismo

Incominciare a disgiungere nel nostro lessico il sovranismo dal nazionalismo può rappresentare una tappa lungo questo cammino. Abitiamo un mondo dominato da un limitante sentimento di necessità, dalla logica inappellabile del “non c’è alternativa”, da scelte che trascendono la politica nel definire alleanze vincolanti e coercizioni finanziarie: di fronte a ciò, la “questione sovranista” va posta, con valide ragioni, al cuore del dibattito sul futuro delle nostre società.

Avulso dal nazionalismo, un sovranismo dal significato rinnovato offrirebbe infatti l’opportunità di ridiscutere cosa significhi essere cittadini oggi. Un esercizio che non troverebbe più limiti nei confini tratteggiati sulle mappe, ma che permetterebbe di immaginare spazi di radicamento e partecipazione diversi. Si potrebbe così intendere il sovranismo come l’intenzione manifesta della “cittadinanza” di prendere parte in maniera organizzata alle scelte che riguardano la comunità: quella a cui sente di appartenere, che sia essa circoscritta nel perimetro della propria borgata o estesa oltre l’orizzonte, fino ad abbracciare l’intero villaggio globale.

Una partecipazione attiva, alimentata dalla fiducia che la realizzazione di un progetto di futuro dipende non solo da sceneggiature cui si assiste da spettatori, ma da attori che vivono e danno vita alla comunità stessa. Sovrani del proprio avvenire anziché sudditi di un ineluttabile destino.

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