Sailor. Anatomia del corpo attraverso la moda è un podcast che nasce da una conversazione tra due persone che sono interessate alla moda, ma la seguono e la studiano procedendo lungo traiettorie, anche personali, molto diverse.

Ci siamo conosciute prima attraverso le nostre voci, grazie al podcast Morgana. Poi ci siamo ritrovate in una giornata di sole a Venezia, a Palazzo Grassi, a parlare del senso della moda per noi, del suo valore, e del suo essere uno dei punti saldi della modernità. E di quanto ci apparisse necessario trovare i modi, gli strumenti critici, le parole per renderne la complessità. Senza dimenticare quello che era, per ciascuna di noi, il personalissimo piacere del vestirsi.  Perché la moda è l’architettura più prossima al corpo, porosa al desiderio.

Sailor parla dunque di corpi. Patrizia Cavalli scriveva: “A questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi, mi abbracci o mi allontani. Il resto è per i pazzi”, e noi proviamo a raccontare quella fortezza composta di ossa, carne, muscoli e cuore plasmata dai sogni e dalle mode. Era inevitabile, passeggiando in questo grande bosco narrativo, decidere di far parlare gli autori e le autrici che ne allargano i confini.

Non volevamo fare una storia e correre il pericolo di «un’unica storia», come scrive Chimamanda Ngozi Adichie, ma volevamo raccontare – mettendole in relazione – tante storie.

CT: Con i vestiti, come coi segni e le parole, puoi mentire. Cresciuta con la nebbia a mordermi le cosce cianotiche fra i cipressi – io che mi pretendevo abbronzata e accarezzata dalle palme – avevo una solo carta da giocare: vestirmi come una cheerleader di Beverly Hills. Lei ricca di nascita, io con le mie gambe nude, più lunghe dei cipressi che ogni giorno mi garantivano ombre di povertà.  Ma erano sufficienti due pompon, e datemi una L datemi una A datemi una D datemi una R e ancora una A.

Da decadi, sono una ladra, come Rock Hudson che dice: «Ho fatto finta di essere qualcuno che volevo essere e alla fine sono diventato quella persona. Oppure è diventato me. O ci siamo incontrati a un certo punto».

Così sono l’odalisca, la cowgirl, la ninfa dei boschi o la pattinatrice sui rollerblade in California. Viaggio carica, e tutte le persone che ho fatto finta di essere sono con me, nella mia cabina armadio. Tengono poco spazio perché sono fatte di trasparenze esotiche, dunque le trasporto come zanzariere in valigie, case, città.

«Chiudete gli occhi e ricominciate», scriveva Alejandro Jodorowsky. Io con gli abiti ricomincio ogni giorno: Sheherazade di me stessa, continuo a raccontarmi per non morire. Nessun re di Persia è pronto ad uccidermi, solo la mestizia di una vita che rischia di sconfinare nella noia. E che inganno travestendomi.

MLF: Gli abiti sono quella intercapedine che sta tra noi e il mondo. Ma anche tra quello che siamo e quello che vorremmo essere. Tu dici che con gli abiti puoi mentire io direi che ti puoi trascendere. Anna Hollander scrive: “I vestiti possono suggerire, persuadere, connotare, insinuare o addirittura mentire ed esercitare una sottile pressione mentre chi li indossa parla francamente e direttamente di altre questioni”. Tu sei riuscita a superare quei limiti in cui ti trovavi compressa a Piacenza, quello economico, quello della provincia, quello della rabbia contro il mondo.

Mentre per me gli abiti erano la possibilità di trascendere un corpo che io vedevo pieno di difetti. Attraverso la loro consistenza riuscivo a trasformare gli sguardi: quello dello specchio e quello degli altri. Essere eccentrica. Avere il coraggio di mettermi in evidenza. Non cercare di mimetizzarmi o seguire le regole insulse per adeguarmi a luoghi comuni, ma superarle. Creare un mio stile e con questo ribellarmi. Col tempo ho realizzato che si può agire attraverso i vestiti. Diventare massa critica, usando gli abiti come manifesto. Penso al movimento Punk, ma anche alla rivoluzione della minigonna. Il gesto di bruciare i reggiseni ha espresso meglio di mille parole la necessità di essere padrone del proprio corpo.

Ecco parlare, scrivere, costruire il podcast Sailor insieme ci permette – nei nostri diversi approcci alla moda – di evidenziarne la ricchezza.  Di comprendere, attraverso le parole delle autrici e degli autori, il senso più profondo del progetto della moda oggi. Non solo abiti, ma corpi, emozioni che abitano i vestiti.

Gli abiti modificano il corpo e spesso lo riportano a degli immaginari molto precisi che individuano una tipologia di donna (la donna Versace, la donna Armani). L’affermazione di Coco Chanel: “Una donna dovrebbe vestirsi come la propria cameriera: semplicemente”, rivendica uno stile che faccia a meno di quei vestiti scomodi costruiti dallo sguardo maschile dei sarti.

Il rapporto ondivago con la moda di molti gruppi femministi nasce purtroppo dall’averla considerata un dispositivo per tenere le donne “al loro posto”, invece di vederla come mezzo per riconoscersi e strumento di consapevolezza.

La domanda è allora: come coniugare femminilità e femminismo? Due parole che molto condividono e che storicamente sono state spesso contrapposte. Maria Grazia Chiuri, diventata direttrice creativa di Dior, prima donna dopo il fondatore e cinque direttori creativi, le mette in relazione agendo tra attivismo e orgogliosa celebrazione del femminile. La sua conquista – forse la più grande nell’esigenza di un atteggiamento diverso nei confronti della moda – sta nell’aver dichiarato, attraverso la sua pratica, che il desiderio di bellezza è qualcosa di positivo che permette di vivere la femminilità senza doversi privare del piacere di vestirsi. Se il corpo è politico, celebrare la propria femminilità è politico. 

Chiuri decide di cominciare agendo sul corsetto. Quell’elemento fondamentale per la silhouette del New Look (la definizione è di una entusiasta Carmel Snow, redattrice capo di Harper’s Baazar: “It’s such a new look”) con cui, nel 1947, Christian Dior diventa, già dalla sua prima sfilata, protagonista indiscusso della couture parigina. È quella sfilata a scandalizzare così tanto Coco Chanel – lei che aveva liberato le donne dal busto, non poteva accettare di vederle tornare a comprimere il corpo – da farle decidere di riaprire l’atelier che aveva chiuso prima della guerra.

«Ho cercato in tutti i modi di rendere il corsetto quantomeno più leggero – ci racconta Chiuri – comodo e adattabile alle diverse forme, anche del seno. Io l'ho sempre visto più come un accessorio, che ti permette in realtà di giocarci, di utilizzarlo in vari modi, sia senza niente sotto, sia con una t-shirt o con una camicia.

Mi piace l'idea che si possa indossare in modo diverso, a secondo anche di come uno si sente. L’idea mi è venuta vedendo l'archivio di Dior, perché in realtà i vestiti di Dior sono tutti composti da due parti: la parte sopra è staccata da quella sotto, anche se non è visibile. Monsieur Dior l'aveva fatto per motivi di peso: le sue gonne erano così ampie, e i tessuti che usava in alcuni casi erano talmente pesanti, che doveva per forza ancorarli alla vita, e il corsetto era semplicemente infilato dentro. Ho trovato che il fatto che potesse essere utilizzato anche con dei pantaloni, non solo con delle gonne, lo rendeva in qualche modo più contemporaneo alle esigenze di oggi».

Affermarsi secondo una propria grammatica, vestire un corpo risalendo la corrente del desiderio. Navigare come i marinai dalla t-shirt a righe, quella codificata da Coco Chanel che diventa stile nella libertà di indossare ciò che ci piace, e che Jean Paul Gaultier trasforma in codice ambiguo della mascolinità ispirandosi a Querelle de Brest.

Lo scrittore marinaio Joseph Conrad ci ricorda: «È privilegio della prima gioventù vivere in anticipo sui propri giorni, nella bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezione. Uno chiude dietro di sé il cancelletto della fanciullezza – ed entra in un giardino incantato. Là persino le ombre rilucono di promesse».

E Francesco Risso, direttore creativo di Marni – cresciuto letteralmente su una barca – ci ha permesso di entrare nel suo giardino incantato fatto di corpi in movimento, raccontandoci: «Ho vissuto in navigazione per i primi quattro anni della mia vita. Eravamo io, mia mamma e mio papà.

Mio padre era un appassionato della vela e così, avventurosamente, ci buttava o mi buttava in situazioni abbastanza straordinarie».

Una volta tornato sulla terraferma, Francesco inizia a tagliare e trasformare ogni cosa che gli capita a tiro, abiti delle sorelle compresi: «È stato uno degli strumenti di espressività massima in una famiglia di persone estremamente espressive, senza lasciare molto campo, per esempio, a un piccoletto come me. Ho dieci anni in meno dei miei cinque fratelli: la manipolazione degli oggetti è diventata la mia lingua. Ritrasformavo in altro tutto quello che trovavo, era come una droga, una cosa di cui non posso tuttora fare a meno».

E infatti, nulla è ciò che sembra nella sua casa, dove blocchi di cemento nascondono la febbre di una memoria distrutta e ricomposta. «Possedevo questo archivio con tutto ciò che ho collezionato negli anni: c’erano alcuni oggetti di mia mamma per esempio – racconta Risso – e a un certo punto li ho letteralmente sfasciati e decomposti. e poi li ho inglobati dentro quel monolite di cemento. Quindi, se vuoi, è un po’ come facevo da piccolo quando entravo negli armadi degli altri e demolivo tutto, creando nuove cose».

Se la moda di Risso propone qualcosa che non sapevamo di volere e in questo modo ci dice qualcosa di noi che non sapevamo, Pierpaolo Piccioli ­– direttore creativo di Valentino – fa spazio per raccontare un mondo in cui i corpi della moda non sono più quelli definiti dalla parola mannequin: figure astratte, manichini, dunque irraggiungibili. Lui sfrutta l’unicità della couture per farla diventare megafono di quella urgente apertura al mondo e alla varietà corpi che lo abitano.

Così Piccioli, raccontando della sfilata a Piazza di Spagna, spiega come si può usare la couture per scardinare stereotipi: «Abbiamo pensato a una progettualità legata ai corpi. Abbiamo incontrato prima le persone, e poi costruito su di loro la collezione, perché non puoi non relazionarti al corpo che hai di fronte. E nel momento in cui ti leghi a un corpo, per cambiare le regole non devono più esserci le taglie, e quindi i cartamodelli.

L’unica mappa che hai a ogni inizio sono le proporzioni del corpo. Volevo disgregare l'immagine della mannequin, volevo cambiare, perché il mondo ha sempre vissuto di canoni, le donne in particolare hanno sempre vissuto di canoni estetici. Dopo la chirurgia plastica che ha uniformato tutti, l’unico canone è che non ci fossero canoni. Quindi costruire una collezione con dei corpi che avessero proporzioni diverse era un modo per rendere la couture contemporanea, perché per me un altro dei compiti di chi fa questo lavoro è che sia rilevante nel momento storico in cui vivi.

Ho raccontato alle sarte quello che stavo facendo, ho detto ad Antonietta, che è la mia première, che quel vestito storico di Valentino, giallo e con le rouche, volevo farlo indossare a un ragazzo e lei mi ha semplicemente risposto: «Sì ma mi devi dare le misure della vita, perché deve cascà bene». Antonietta pensava che, essendo un ragazzo, forse la vita era un po’ più grande: era solo una questione di proporzioni. Le persone ti seguono se tu racconti loro qual è il senso delle cose».

E il senso delle cose, per un collezionista come Alessandro Michele ­– che si definisce ospite dei suoi oggetti – è anche trovare talismani che sono benedizioni, capaci di proteggerci nel tempo e nello spazio. Michele porta un rispetto sacrale per gli amuleti di cui si circonda, e ci racconta: «Io mi reputo più ­– come direbbero i francesi – un conservatore, perché me ne prendo cura anche fisicamente.  ­La loro fisicità mi interessa molto, anche la materia che li costituisce, lo spazio che occuperanno nella mia casa, l'ordine che io gli darò, la storia che si portano dietro. Insomma, la mia esistenza si riempie molto di queste cose che in tanti reputerebbero, a torto, inanimate. Spendo tempo dietro a loro, vivo nell'apprensione del loro stato. Se stanno bene, se stanno male».

Tra i moltissimi oggetti che affollano la sua vita, ce n’è uno da cui non si separa mai: «Ho un pupazzetto nero e beige, un piccolo pupazzo di pezza che ho acquistato con mia mamma tanti anni fa: lo misi in borsa, ed è diventato "l’abitante della borsa”. Lo chiamo proprio così, e visto che è per me un portatore di cose belle, lo devo avere quando sono in giro: così trasloca ogni giorno nelle mie borse, anche in quelle più piccole in cui entra a malapena. È un po’ come quando da piccolo mettevo a dormire gli orsacchiotti, e se uno era storto dicevo "Oddio, così dorme male”.

Quindi non posso abbandonarlo a casa, ho l'impressione che gli pigli un colpo. Durante un viaggio in aereo, gli ho anche dipinto un piccolo cuore con una pennina rossa: non ce l’aveva, così ho rimediato». Alessandro Michele, che disegna il cuore all’abitante della borsa, fa la stessa cosa in fondo anche con noi: è un insufflatore di meraviglia quando ne siamo un po’ a corto.  Se la nostra capacità di immaginare dipende dal nostro grado di consapevolezza, Michele è consapevole che possiamo avere come migliori amici tutto ciò che desideriamo, che siano draghi domestici o Greamlins.

Baudelaire diceva che l’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una delle province della verità. La verità che Michele ci dona è più ampia, divertente e fantastica di quanto crediamo.

Così, Sailor parla anche di coraggio perché, come diceva Charles Bukowski: «Il coraggio è importante, è una questione di stile. L’unica cosa che ci è rimasta».

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