“This is the way the world ends

Not with a bang but a whimper.”

T.S. Eliot, The Hollow Men

1. Mara

Svanire in fondo non è il modo peggiore di andarsene. Ho sentito parlare di altre civiltà, precedenti alla nostra, che non svanivano. Semplicemente un attimo prima stavano in piedi, camminavano, parlavano, respiravano e l’attimo dopo, all’improvviso, non più o come si usava dire all’epoca “morivano”. Sì, perché loro non svanivano gradualmente, disgregandosi poco alla volta, come parrebbe logico.

Si dice che questi popoli lontani avessero ancora tutto il corpo integro e presente allo scoccare della loro ora e che questo semplicemente “smettesse improvvisamente di funzionare” ma restasse là, intatto, a mo’ di imbarazzante oggetto, inutile, insensato e un po’ ridicolo. Il perché è tutt’oggi un grande mistero.

Non è molto chiaro come fossero organizzati per quanto riguarda la sistemazione di quei corpi inspiegabilmente intatti. Secondo alcune fonti pare che per qualche misteriosa ragione gli venissero costruite abitazioni sotterranee apposite in modo da conservarli, altre fonti invece giudicano questa usanza molto poco plausibile e sostengono invece che avessero ideato un sistema ingegnoso per smaltire quei corpi ancora aggregati banchettando vari giorni con le carni dei “morti” fino al completo assorbimento della materia nei corpi “vivi” in modo da favorirne il disgregamento non ancora occorso ed il riciclo atomico.

O ancora che, per le stesse ragioni, li bruciassero e poi ci concimassero il terreno. Nessuna di queste ipotesi pare essere molto convincente, tuttavia sembrerebbe essere un dato certo che la macchina organica umana non gli fosse affatto indifferente anche quando non riusciva più a funzionare. Si tratta, tuttavia, di civiltà talmente lontane da essere oramai avvolte da un’aura mitologica e non si sa quanta parte di ciò che sappiamo fosse una realtà effettiva e quanto invece un ricamo narrativo successivo costruito sulla base dalla sconfinata quantità di letteratura scritta in proposito conservata in ogni biblioteca esistente.

Ad ogni modo la loro doveva essere una vita veramente precaria: in possesso di tutte le loro parti all’improvviso smettere di funzionare ed accasciarsi semplicemente da un lato con familiari ed amici a doversi prendere la briga di far qualcosa di quel corpo integro esattamente come l’attimo prima, ma apparentemente inutile.

Per questo dico che dissolversi gradualmente, stando ai dati storici, non sembrerebbe essere il modo peggiore di andarsene che potesse capitarci, nonostante tutti gli inconvenienti ben noti che implica lo svanire. Un’altra particolarità strana era il fatto che ci fossero parti del corpo più rilevanti di altre. Pare, ad esempio, che si potesse restare senza un piede, ma non senza la testa. Pare, sempre stando alle documentazioni in nostro possesso, che ad alcuni organi venisse destinato un nome che li distinguesse dagli altri: “vitali” che poi significava “se perdi questo hai chiuso”. Una dinamica rischiosissima.In questa società non avrebbero trovato posto molti dei nostri anziani che, indiscutibilmente vivi, sono composti di frammenti corporei connessi fra loro senza che si manifesti alcuna predominanza gerarchica né tantomeno “vitale” che renda una parte imprescindibile ed un’altra no. Forse in quelle epoche gli esseri umani erano macchine biologiche perlopiù morte animate solo grazie alla presenza di alcuni “motori” fondamentali o forse funzionava solo per gli organi doppi ed una volta persi entrambi i piedi o entrambi i reni o entrambe le braccia si smetteva ugualmente di funzionare nel complesso.

Ad ogni modo, qualunque fossero le strutture organiche umane di un tempo, il loro corpo non era un aggregato dall’intelligenza distribuita capace di riformularsi costantemente e rapidamente a seconda dei nuovi rapporti e delle nuove disposizioni fisiche a prescindere da cosa sia rimasto a comporlo e da cosa si sia invece già disgregato.

Ricordo che da bambini guardavamo con estrema curiosità le persone anziane, senza gambe o senza braccia, nei casi più impressionanti addirittura con soltanto una di quelle, poi l’abitudine ci ha tolto lo stupore dagli occhi e l’ha sostituita con la pietà per loro e per noi stessi che gli corriamo subito dietro e sappiamo che presto o tardi inizierà anche per noi.

Io ho ancora tutte le parti del corpo e per il momento è normale, sono relativamente giovane, conduco una vita sana, ma la realtà dei fatti è che nessuno sa mai quando la propria evanescenza diverrà visibile ad occhio nudo, vita sana o meno, quindi mi tengo all’erta.

2. Iris

Lo svanire mi ha colpita quando ero molto giovane, in un’età in cui nessuno si aspetterebbe di iniziare a farlo. A pranzo, tornata da scuola, mia madre si accorse che mi mancava un dito della mano sinistra, il mignolo. I miei iniziarono a tempestarmi di domande: volevano sapere quando l’avessi perso, se me ne fossi accorta o meno e, se sì, per quale motivo non l’avessi detto.

Il giorno stesso eravamo nella sala d’attesa del medico. Ricordo bene il vestitino a fiori che indossavo perché ho passato non so più neanche quanto tempo a fissare allibita la mia mano sinistra che si stagliava in tutta la sua incompiutezza poggiata sul mio ginocchio in quel mare di fiorellini.

Ricordo quasi ogni movimento di quel pomeriggio in quella sala d’attesa di quell’ospedale e non perché comprendessi a pieno la gravità di ciò che stava accadendo (che indubbiamente abitava la mente di chi mi circondava), ma perché lo percepivo prepotentemente nell’inconsuetudine dei gesti compiuti dai miei genitori. Non avevo mai visto mio padre guardare un orologio in vita sua, non ho nessun ricordo di un qualche rapporto avvenuto fra l’oggetto orologio e l’oggetto padre nei sette anni precedenti a quel pomeriggio, lui non aveva il minimo senso del tempo, non se ne curava mai, lo lasciava semplicemente scorrere.

Ebbene, quel pomeriggio in quella sala d’attesa di quell’ospedale mio padre guardava l’orologio appeso al muro sopra la mia testa esattamente ogni undici secondi. Li ho contati. Mia madre, solitamente molto loquace sia di allegrezza che di apprensione, quel giorno non proferì neanche una parola. Il medico mi aveva diagnosticato una forma precoce di svanimento, mi prescrisse alcuni farmaci che avrebbero rallentato il processo oramai prematuramente arrivato ad uno stadio visibile. Ricordo il modo compassionevole in cui mi rassicurava, mi diceva che il mio era un corpo giovane, certamente ben reattivo, che avrei potuto anche restare aggregata quanto chiunque altro, ma leggevo chiaramente nei suoi occhi che se gli avessi posto una qualunque domanda non avrebbe saputo cosa rispondere. Fu solo verso i quindici anni che seppi dell’esistenza di una civiltà arcaica che non svaniva: loro “morivano”.

Rimasi completamente e prevedibilmente affascinata da questi popoli che cessavano di funzionare prima ancora che il loro processo di svanimento fosse visibile lasciando lì tutto il corpo integro. Iniziai a leggere qualunque cosa mi passasse sotto mano a riguardo (e ce n’era di materiale), volevo sapere tutto, scoprire i misteri di quell’andarsene restando.

In quei testi si parlava della morte come di una disconnessione dai sensi senza che si fosse disgregata la parte del corpo deputata, un “venir meno” restando momentaneamente un “più” nel mondo. Intanto il mio corpo continuava, seppur rallentato dai farmaci, a svanire. Dopo il mignolo persi per disgregazione l’intera mano nell’arco di un paio d’anni, nei tre anni successivi avevo perso anche il piede destro fino all’altezza di un calzino di media lunghezza, infatti tentai di coprire la cosa indossando costantemente uno scarpone con all’interno una speciale protesi in legno per mantenerne la forma. In quei libri c’era scritto che, sì, anche a quei tempi l’atto dello svanire, del morire, durava sempre una vita intera, ma lo si percepiva solo per il tempo di qualche battito cardiaco mancato. Non uno svanire, ma una sorta di irreparabile svenire. 

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