Dov’è Anne Frank? È una memoria remota dispersa tra ponti, ospedali, scuole, stazioni ferroviarie, negozi e biblioteche che le hanno intitolato? È un brand per i turisti che aspettano il loro turno al 263-265 di Prinsengracht, Amsterdam, per accalcarsi nei pochi metri di un rifugio precario? È «la più grande risorsa spirituale che l’Olanda abbia prodotto dopo Rembrandt»?

Where is Anne Frank?, col punto interrogativo, è un titolo più illuminante di quello scelto per la distribuzione italiana del film di Ari Folman che sarà in sala con Lucky Red dal 29 settembre, Anna Frank e il diario segreto.

Il diario della ragazzina ebrea di Francoforte rifugiata ad Amsterdam con la famiglia per sfuggire ai nazisti e confinata in una soffitta segreta tra il 1942 e il 1944 può diventare una polverosa reliquia, una lettura istituzionale e subìta da banchi di scuola, se non si riscopre il suo potere di testimonianza nei tempi che stiamo vivendo.

Un lavoro didascalico

Nel 2008 Valzer con Bashir, poi candidato all’Oscar, impose Ari Folman all’attenzione mondiale. Utilizzare l’animazione per le memorie rimosse dei militari israeliani nel mattatoio di Sabra e Shatila era una sfida. Folman firmava con David Polonski l’omonima graphic novel.

Da otto anni, in tandem con la Fondazione Anne Frank di Basilea, il regista è impegnato nella mission di raccontare in chiave nuova la storia dell’Olocausto. La graphic novel del Diario vero e proprio è uscita nel 2017, in Italia con Einaudi. L’impatto di questo film però è tanto più rilevante del nuovo libro – firmato con la disegnatrice Lena Guberman – che lo affianca: un sequel, potremmo dire, applicando un frusto termine commerciale alla soluzione finale che inghiottì la precoce scrittrice.

Film didascalico ma urticante, Anna Frank e il diario segreto. E il termine “didascalico” andrebbe rivalutato, in quest’epoca di scrittura sfrenatamente autoreferenziale. Spiegare, far capire, non dare le cose per scontate, non è un malvezzo. E può capitare, come è accaduto allo scrittore-regista nel suo work in progress, che la Storia ti corra incontro oltre ogni previsione, rendendo le analogie immaginate con il presente più urgenti e sinistre.

Nel futuro prossimo

AP 2018

Protagonista del film è Kitty, l’amica immaginaria a cui Anne raccontava il buio e la luce della clausura. È una «ragazza d’inchiostro»ma è viva: lo era per Anne. Si materializza per un casuale incidente dalle pagine del manoscritto, quando si rompe la teca del museo che lo custodisce.

È l’Amsterdam di oggi, anzi, nell’inquietante datazione del film, «a un anno da ora». È il futuro dietro l’angolo. Mai come oggi è netta e comune la consapevolezza che per male che vada al peggio non c’è mai fine. Anne ha creato la sua amica di penna ispirandosi alle sue eroine di celluloide: ha i capelli di Veronica Lake.

E non c’è forzatura, non c’è bisogno di viaggi nel tempo: Kitty, da creatura immaginaria, può essere insieme inquilina del museo, invisibile alle folle di visitatori, e compagna di chiacchiere di una teenager vissuta ottant’anni fa. Può raccogliere le confidenze nostalgiche di Anne, che rimpiange in forma di musical anni Quaranta l’esercito di corteggiatori degli anni di libertà. Può vedere le strade invase dagli spettri nazisti col volto di teschio, spaventosi perché senza età, fantasmi che il passato non ha estinto.

Un film per bambini

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Didascalico, sì, perché comunque e innanzitutto un film destinato ai bambini. È a beneficio dei giovanissimi che Anne racconta all’amica l’escalation della segregazione, i bambini ebrei convocati in questura e mai ricomparsi, avviati a misteriosi “campi di lavoro”. Perché gli ebrei? «Perché nella storia del mondo si è sempre trovato qualcuno cui dare la colpa delle brutte cose che accadono», spiega Anne, come gli zingari in Europa, gli armeni in Turchia, i namibiani in Africa, gli apache in Messico…

C’è tanto cinema d’epoca riprodotto e ricreato da Folman. Era la grande passione della piccola Frank, Stanlio e Ollio e Clark Gable e Marlene Dietrich, tutta la gioia persa con la vita di fuori. Ma nella sua soffitta al museo Anne non c’è più. Kitty, che vive nel Diario, o meglio ne è una diretta proiezione, non conosce il finale della storia, quegli ultimi sette mesi di vita mai scritti. Va a cercare l’amica scomparsa in città. E per le strade di Amsterdam nuovi furgoni e nuove divise caricano bambini, uomini e donne, e nessuno di loro ha facce bianche.

Il racconto è un viavai di percorso dentro e fuori l’ironia della pagina scritta (che di ironia abbonda), tra i resoconti burloni dei peti della signora Van Pels, in coabitazione forzata con i Frank, e le armate di eroi greci capitanati dal mitico Gable, all’attacco dei teutonici nazi come nel Sergej Eisenstein dell’Alexander Nevsky.

È a questo punto che un ufficiale di polizia con la voce originale di Ari Folman (nei suoi film il regista presta sempre la voce a questo o quel personaggio), interrogato sulla “persona scomparsa” Anne Frank, pronuncia la famosa battuta: «E la più grande risorsa spirituale che questo paese abbia prodotto dopo Rembrandt».

Cambiare la storia

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L’illusione, il gioco di specchi, per Kitty come per i ragazzini che guardano il film, non può continuare in eterno. Fuggita portando con sé il manoscritto del diario, di cui lei stessa è parte integrante, l’amica immaginaria scoprirà che l’amica vera è morta nel lager di Bergen-Belsen con la sorella, che della famiglia solo Otto Frank è sopravvissuto e ha potuto scrivere l’ultimo capitolo.

Ma il furto di un tesoro nazionale ha fatto di Kitty una fuorilegge. Ricercata, braccata, assistita da un fuorilegge ragazzo come lei che fa il borsaiolo e si chiama Peter come il fidanzatino di Anne, percorrerà le stazioni finali dei Frank, il loro calvario verso est, e che suono tremendo assume questo punto cardinale, quando diventa sinonimo di Polonia e campi di sterminio. Noi siamo adulti, e sappiamo. Però è importante tenere agganciato chi non sa, e non necessariamente trattasi di minori. Perciò servono corsa, fuga, avventura, emozione e – perché no? – sentimento.

Nel teatro intitolato ad Anne Frank va in scena il Diario, ma sarà Kitty, dal pubblico, a ricordare le vere parole della sua amica: «È incredibile che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, tutta quella malvagità umana, io creda ancora che nel loro profondo gli esseri umani siano buoni».

Non è come recitarle fuori campo. Contestualizzate, inserite a contrasto nella sceneggiatura, mettono i brividi. È un altro secolo, un altro mondo, ma le guerre continuano, e nell’Olanda che a quella ragazzina assassinata ha dedicato ponti e musei i nuovi esclusi sono i rifugiati. Il picco dell’onda migratoria tra il 2018 e il 2019 ha fatto spostare a Folman la barra del film.

Nella squat house occupata dagli immigrati Kitty ascolta storie di bambini in fuga, di traversate impossibili, di porti rifiutati in tutto il Mediterraneo (tra i “no” c’è anche quello italiano: passato o futuro?), di questa Olanda ostile che ha stabilito che «è più sicuro rimandarli a casa». Altri copioni, stesso futuro negato. Dal campo di lavoro di Westerbork, dove è ancora insieme alla madre, Anne Frank sarà caricata sull’ultimo treno verso est.

Nelle immagini, attingendo alle passioni di una ragazzina precoce, è la discesa nell’Ade della mitologia classica, l’Inferno che si spalanca con Cerbero verso qualcosa che non ha più a che fare con la vita come la conosciamo. Ma quel diario, che nella teca era solo un cimelio di ieri, se lo porti nel mondo può ancora cambiare la Storia. Con le forze dell’ordine pronte a sgombrare la squat house e a rimpatriare i rifugiati, Kitty lo userà come merce di scambio. Il prezzo è accogliere questa gente, dargli case, certezze, un domani.

«Dobbiamo salvare quante più vite possibili», diceva Otto Frank alla figlia in rivolta per la soffitta sovraffollata. «A un anno da ora» forse ne avremo più chiara e impotente coscienza. Il padre e la madre di Ari Folman arrivarono ai cancelli di Auschwitz la stessa settimana della famiglia Frank. I diari sono vita.

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