Ho incontrato un mio amico, che preferisce restare anonimo, per bere un caffè in uno speakeasy di un quartiere periferico di Milano, che al contrario del mio amico sarebbe anonimo anche se non volesse esserlo. È un bar dotato di retro, nel quale, in strettissima osservanza delle regole di distanziamento e quant’altro, si può bere un caffè nella tazzina vera, seduti con la mascherina, che si è autorizzati a levare solo per bere il caffè stesso.

Ci siamo sentiti molto trasgressivi, il mio amico e io, insieme a un paio di uomini di oltre sessant’anni che a cinque metri da noi parlavano piano davanti a due tazzine vuote, le bustine dello zucchero esauste accanto a qualche granello bianco che luccicava sulla formica rosa della superficie del tavolo sotto il neon.

Il mio amico, di professione affine alla mia, era nervoso. Pareva serbare una cosa da dire, probabilmente si era chiesto lungo la strada per raggiungere lo speakeasy se parlarne oppure no. Ho scoperto presto che non si trattava di chissà quale segreto e dopo i primi dieci minuti passati a bere il caffè e a maledire la situazione – claustrofobia, lieve ma crescente depressione, la prospettiva di mesi invernali duri ancora tutti da passare – ha iniziato a chiedermi se avevo notato mutamenti nel mio corpo.

Voleva sapere se il lungo periodo di clausura, in particolare questo secondo, invernale, mi avesse portato a una nuova e completamente indesiderata attenzione al mio strumento materiale d’esistenza, così l’ha chiamato. Prima di rispondere l’ho guardato per un attimo come a dirgli: è quello che è successo a te, giusto? Poi ho aggiunto un lapidario sì, invitandolo implicitamente ad approfondire il tema.

«Ho riletto l’Innominabile di Beckett» ha aggiunto, come se questo concludesse la discussione. Gli ho risposto che non mi pareva una grandissima idea: Beckett lo leggi quando il mondo là fuori non è precisamente, o prevalentemente beckettiano; se Beckett lo vivi ogni giorno sulla tua pelle, meglio evitare di leggerlo forse? Mi dicono che Patrica Highsmith scrive benissimo, lo provoco. Ridacchia. Ha una bella risata il mio amico, larga e dolce.

La convalescenza sine die

L’Innominabile è il capitolo finale della trilogia dello scrittore irlandese, nel quale il protagonista rimane immobile seduto a farneticare, piangendo. Non sa neanche su cosa sia seduto, proprio come noi. Insomma rileggerlo adesso è andare in cerca di guai.

Approfittando della battuta su Patricia Highsmith lo riporto a terra, gli dico che mi pare naturale che abbia questi pensieri, che stiamo vivendo con un corpo prevalentemente inutile e quando il corpo diventa inutile si fa sentire. Se ne accorge quello, il corpo, mica è fesso, gli dico. Una specie di monito per il nostro futuro immateriale, se mai ne avremo uno.

Il corpo è offeso dalla limitatissima deambulazione di questo periodo; abituati come siamo a muoverci solo quando è necessario, né io né il mio amico siamo tipi da passeggiate senza meta, quelle cose fatte dalle persone serene e tranquille, a loro agio col vuoto e la solitudine. Noi siamo bestie da città, da trambusto dal quale fuggire, se non c’è trambusto non c’è motivo di muoversi. Se c’è trambusto invece ci si muove: per esserne coinvolti e lamentarsene, o per sfuggirne, e lamentarsene allo stesso modo.

La nuova routine di brevissimi tragitti quotidiani letto-bagno-divano-tavolo da lavoro non è di certo ben accolta dal corpo non fesso. Viviamo da convalescenti, senza data di guarigione. Esatto, esclama lui, mi pare si stia infervorando, buon segno. Il corpo non sa quando potrà guarire e allora si adagia, e nel tempo stesso protesta, sempre più flebilmente. Beh, proprio flebilmente no, dico io.

Non mi muovo da mesi, qualche bagno quest’estate e poco più. Ho la schiena a pezzi. Ma no, fa lui, non parlo degli acciacchi. Beh, e allora di cosa vuole parlarmi? Parliamo degli acciacchi, così vivi, così naturali, così belli nella loro dolorosa naturalezza, il grande terreno comune di noi “cosi con due gambe”.

Gli acciacchi

Io per esempio non sono mai stato così spesso in ospedale come quest’anno, gli faccio. Una operazione al naso. Sinusite cronica, esito di una deviazione del setto nasale risalente a un colpo subito durante i miei lunghi (troppo lunghi) trascorsi da calciatore dilettante.

Ce l’avevo da anni, ma solo a marzo 2020 ho iniziato a rendermi conto che di notte non respiravo praticamente più; avevo ignorato i chiari segnali dell’estate precedente quando non riuscivo più ad andare sott’acqua, non compensavo. Ma al tempo al corpo non facevo caso.

Il mio amico finalmente si interessa alle peripezie del mio naso, io orgoglioso inspiro ed espiro profondamente a mostragli le mie ritrovate capacità aerobiche. Lui giustamente applaude e a bassa voce mi chiede se mi va un whiskey. Sì, dai. Fanculo.

Comunque, proseguo io, non è finita qui; la mia ernia alla schiena è peggiorata, praticamente posso dormire solo in una posizione, che però non mi permetteva di respirare (prima dell’intervento al naso intendo) e quindi facevo dieci minuti di sonno in apnea e dieci con la schiena dolorante. Un vero martirio. E lui non vuole parlarmi di acciacchi.

E di cosa allora vuole parlarmi? Non gli ho ancora nemmeno detto che mi hanno trovato un bubbone sullo stinco (Beckett aveva dolorosi bubboni nel buco del culo) e che dovrò levarmelo, non ora, non si può, gli ospedali sono “al collasso”. Me lo tengo per dopo, come ultimo colpo, in caso null’altro dovesse funzionare per distoglierlo da questi pensieri a vanvera che bene non gli fanno di certo.

Le convenzioni sociali e l’orgasmo a secco

Vuole parlarmi delle convenzioni sociali, dice l’amico mio, con un tono di superiorità che non gli appartiene e che dunque m’insospettisce. Ah, quelle. Aspetta, parliamo un attimo del consiglio che mi ha dato il luminare della schiena (duecentocinquantadue euro e il cashback di stato non ha funzionato ovviamente): comprare una cyclette reclinabile. Un arnese per pedalare seduti su una poltroncina ergonomica che dovrebbe risolvere i miei problemi.

Lui non ci sta, nonostante sorseggiando il whiskey si abbandoni a smozzicate e scabrose confidenze sugli effetti positivi del pilates, anche se sa benissimo che io sono di vecchia scuola, lo sport è sopraffazione collettiva di un avversario collettivo, con tempo, spazio e regole condivise. Per me il pilates corrisponde ancora più o meno allo spinzettarsi le sopracciglia, vezzo sempre più diffuso tra i levigatissimi nuovi maschi e al quale non intendo in alcun modo sottomettermi. Gli basta. Rilancia, però.

Ora dice che se non devi incontrare nessuno non ti viene voglia di prenderti cura del tuo corpo; non hai visto tutta sta gente in pigiama e tuta sui social? Ecco io sono messo peggio di loro, aggiunge. A novembre mi sarò fatto la doccia al massimo due volte. Pure io, gli confesso. Ma che c’entra, quello è un altro capitolo. No, fa lui, è lo stesso capitolo. Muta il tuo corpo e muta il rapporto che hai con lui e muti tu, per sempre, se hai passato una certa età.

Il mio amico ha qualche anno più di me, ha superato la cinquantina, se li porta benissimo; non ha capelli bianchi per dire, anzi, oltre che non averne di bianchi sono foltissimi e scuri e ha gli occhi azzurri. Il mio amico è un bell’uomo. Per non parlare del sesso, mi dice ora, scolando l’ultimo goccio di whiskey mentre io sono ancora a metà del mio, quasi avesse fatto una associazione di idee con i miei pensieri non espressi. Il sesso cosa? Il sesso.

Mi è successa una cosa stranissima, ero tentato di andare su Google. Dimmi, gli faccio interessato, ma non andare mai su Google per gli acciacchi. Ma quali acciacchi. Un miracolo o una tragedia, non saprei come meglio dire. Racconta che la sera prima (che sia stato questo a spingerlo a invitarmi a bere un caffè?) ha avuto un amplesso nel quale gli sembra proprio di aver raggiunto l’orgasmo senza tuttavia eiaculare. Sciopero dei coglioni. Ma va, gli dico. Non hai avuto un orgasmo, semplicemente. No, no, fa lui, sicuro come uno che ha visto un fantasma. Sono venuto, ho goduto e non è uscito niente. Sciopero. Inquietante, no? Non lo so, gli dico, e finisco il mio whiskey tutto d’un fiato.

Corpi che fatturano

All’improvviso entra un uomo in divisa, non specificherò di quale tipo o arma. Grosso, divisa perfetta, capelli biondi e lunghi che mi paiono troppo lunghi per appartenere a un uomo delle forze dell’ordine (forze dell’ordine rimane una definizione fascista, rifletto, mentre lo guardo). Noi, consapevoli d’esser trasgressori ci irrigidiamo; un suo sguardo ci fa capire che è tutto a posto.  

Si avvicina al tavolo dei due anziani, che nel frattempo hanno ordinato altri due caffè, si china accanto a uno di loro, quello che ha un cappellino di lana da pescatore, arrotolato sulla fronte a larghe coste di lana blu, e gli bacia la mano. Non capisco se è per gioco o se devo aspettarmi che Joe Pesci spari nel piede a qualcuno. Ma, in fin dei conti, possiamo aspettarci di tutto, anche una sparatoria, dice il mio amico, al solito continuando ad alta voce il corso dei miei pensieri.

E aggiunge, forse a causa di una oscura associazione d’idee con le divise, che un mese fa mentre stava andando fuori città per chissà quale incombenza, aveva notato in un viale al limite dei confini comunali che le prostitute sono ancora attive. Per forza, gli dico, il loro corpo sta nel capitalismo in modo diretto, non mediato, quindi serve e non si mette a riposo. Ma non controllano, dice lui, incazzato. Io butto un occhio all’agente lì a fianco. Stanno in silenzio.

Cattività

Dopo una breve pausa torniamo ai nostri discorsi. Quindi, dice, le convenzioni sociali ci tengono in piedi, ci obbligano a renderci presentabili. Sai che novità, interloquisco, un po’ stanco, no, non stanco, ma preoccupato dalla piega che sta prendendo la conversazione. Ora – continua lui – poniamo che questa cosa duri un altro anno. Io già faccio fatica. La mia fidanzata mi sembra ogni giorno miracolosamente più bella. Lo è, dico io, ma lui non si ferma, dice che invece lui si sente ogni giorno peggio e peggio ancora non trova la forza per ricominciare a prendersi cura di sé.

Non l’ha mai fatto, in realtà. Ma sì, gli dico, ormai arreso alla piega depressiva che ha preso la conversazione, io decado sempre più. Un abisso di inattivismo, pelo facciale incolto, capelli troppo lunghi, felpe cambiate tutti i giorni ma tutte uguali. Da quanto tempo non mi faccio la barba? Da quanto non metto una cravatta? Un anno ormai, credo. Lo vedi? riattacca lui, stiamo diventando barbari o bestie in cattività.

Poiché, non essendo più nessuno, senza le convenzioni sociali, tanto vale essere assassini o ladri notturni, o qualsiasi cosa abbia nella sua essenza l’anti-socialità. Altrimenti siamo nudi con le nostre convenzioni che poi si rivelano essere sostanza, forma e sostanza. Civilizzato, sì civilizzato, aggiungo citando il pezzo dei CSI. E quindi, dove andiamo a parare?

Lei, la fidanzata, si è presa l’orticaria, dice lui, girandosi per un attimo a guardare come evolve la situazione sul fronte forze dell’ordine e anziano con cappellino da pescatore. Bisbigliano seri ora. L’orticaria, capisci? Una cosa così anni Ottanta, da fare tenerezza. Ha fatto cento esami, non si capisce cosa sia. Arriva la sera e le sue gambe diventano fiamme. Lui le spalma una crema lenitiva e in qualche modo migliora.

Le sarebbe venuta senza il lockdown? No, secondo me no, conclude teatrale. Le è venuta per te, non per il lockdown, dico io. Una reazione allergica comprensibile dopo quasi un anno di convivenza forzata (il mio amico si è fidanzato un attimo prima dell’inizio della pandemia, con tempismo perfetto). Tocca a me, lui ora tace.

Fare cose con il corpo

Gli dico che la mia di fidanzata mi ha invece detto che è arcistufa (proprio così, preciso di fronte allo sguardo dubbioso di lui, ha detto «arcistufa») di sentirsi inutile e che vorrebbe fare qualcosa. Beh, può fare delle donazioni, ribatte lui, cambiando subito registro. No, gli spiego, non si tratta di aiutare dal divano da casa con un click. Lei vorrebbe fare qualcosa di fisico per dare una mano. Ma è complicato. Vuole usare il corpo e la fatica per liberarsi dell’angoscia. Normale, no? Normale sì, ammette lui, sempre meno cupo perché si sta parlando di me.

Vedo decadenza ovunque, prosegue, improvvisamente di nuovo esausto. Dice che ha bevuto una zoombirra con un nostro comune amico, che ha la labirintite. Dice che dopo ha pianto. Gli è sembrato vecchio, finito, lontano dal mondo ma vicino a lui. Mi sono rivisto capisci? È più giovane di me e mi ha terrorizzato il suo sguardo perso. La labirintite! Ha pure perso altri capelli e aveva la faccia gonfia. Come gonfia? Non risponde e prosegue.

Ho visto mio padre qualche giorno fa, dopo un mese, per Natale, dice. Era curvo. Letteralmente, si è incurvato. Parla più lentamente. Ha parlato dieci minuti di una cosa che non è mai successa, e io non sapevo cosa fare, se dirgli che non era mai successo, assecondarlo, fare finta di niente. E che hai fatto, gli chiedo, facendo segno che ci portino altri due whiskey. Al terzo saremo d’accordo su tutto. Niente, gli ho solo detto che non mi ricordavo e lui si è offeso, parla ancora il mio amico, con tristezza. Vorrei abbracciarlo adesso, subito, ma non si può. Era curvo e rallentato, ripete, con tono conclusivo.

Ma tu sei in forma comunque, guarda me, gli dico. Ride. Però sì hai ragione, concedo. Ne usciremo decaduti, caduchi, fragili. Hai fatto caso ai volti delle persone nelle video-riunioni? Sì, dice, e aggiunge che la parola video-riunione gli piace molto, vorrebbe continuare su questo ma lo interrompo e proseguo parlando più velocemente, gli dico che a me è parso – ne sono quasi certo – che ci sia stata una diminuzione della cura anche lì, cosa che avevo accolto con favore, almeno fino a prima di questa conversazione. Mi pareva un buon segno: liberiamoci e ricordiamoci, dopo, di esserci liberati.

Una donna, non dico che lavoro fa, a marzo veniva in video-riunione con il suo solito trucco quasi invisibile ma efficacissimo, una raffinata camicetta e una perfetta illuminazione dell’ambiente. Anche lui la conosce, conferma che è una donna curata. Ci hai scopato? Chiedo, avendolo fatto io vorrei sapere. Ebbene, mi fa, ignorando la domanda? Ebbene, da ottobre, o forse novembre il trucco è scomparso, poi via le camicette, e infine spente le luci.

Ora si collega da un luogo semibuio, ha il volto illuminato solo dallo schermo dal computer. Ma com’è di umore, chiede il mio amico. Come al solito, ma non sembra, o in realtà è, totalmente diversa; una prigioniera di guerra incongruamente loquace e proattiva. Siamo dissociati, dai. Dal corpo e da noi stessi, che quel corpo siamo. Boh. Vado a pisciare.

Lo specchio

Si è alzato con lentezza – due whiskey alle quattro del pomeriggio sono un salubre rimedio nel breve periodo, una pessima idea nel medio periodo – ed è scomparso nel cesso. Ho guardato il tavolo accanto al mio, non c’è più nessuno nella stanza. Aspetto il mio amico per dieci minuti, poi vado a cercarlo in bagno, che cazzo starà mai facendo? Non c’è.

Mi colgo allo specchio di sfuggita. Un’ombra che mi fa paura; accendo la luce, mi avvicino, studio le linee del mio volto. Ho gli occhi stanchi, lo sguardo dritto nel mio sguardo mi mette i brividi, apro il rubinetto, non c’è acqua. Ho la barba troppo lunga, lo dico ad alta voce, come a convincermi, poi mi pare di sentire la voce della mia fidanzata che mi chiama e penso al fatto che ci siamo presi anche noi un cane, piccolo e nero. Il cane invisibile.

Mi riguardo, i miei lineamenti iniziano a fondersi con quelli del mio amico; uno sterile e spaventoso ibrido. Spengo la luce, mi fermo davanti alla porta per qualche momento. Cerco il cellulare nei pantaloni, lo sento nella tasca davanti dei jeans, mi rassicura, limita il panico che mi sta prendendo nonostante l’alcol pomeridiano. Sono al buio in un cesso a cercare un amico che si è volatilizzato. Do un colpo forte alla porta, che bascula sui suoi cardini rimanendo in movimento più di quanto m’aspettassi.

Nello stanzone dello speakeasy non c’è nessuno.

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