Dal 1941 al 1945 lo scrittore ebreo-russo Vasilij Grossman fu corrispondente di guerra al seguito dell’Armata Rossa. Nel 1943, prima quindi di trovarsi dinnanzi all’Inferno di Treblinka, Grossman racconta (in Ucraina senza ebrei, recentemente pubblicato da Adelphi), la morte di un popolo che per secoli era vissuto a fianco degli ucraini. Se francesi o danesi, serbi o russi erano uccisi dai nazisti quando erano da loro ritenuti colpevoli di un misfatto, gli ebrei venivano giustiziati solo in quanto ebrei.

I paesi dei pescatori del Dnepr, devastati dai tedeschi e oggi al centro del conflitto russo-ucraino, il silenzio del villaggio di Kozary, raso al suolo nel 1941 perché i suoi abitanti, tutti poi giustiziati, avevano dato rifugio ai partigiani, sono simboli di questa tragedia.

Tra le vittime vi fu anche la madre di Grossman, Ekaterina Savel’evna, che viveva a Berdicev, la città natale dello scrittore. Il Memoriale del Babij Jar, alla periferia di Kiev, oggi danneggiato dai bombardamenti russi, testimonia il massacro di più di 33mila ebrei ucraini.

Un lavoro ignorato

Insieme a Il’ja Erenburg, Grossman curò in seguito Il libro nero, in cui la ferocia nazista contro gli ebrei fu ampiamente documentata, ma tutto il materiale raccolto fu sequestrato dall’Nkvd dopo la guerra, quando la politica antisemita di Stalin non consentiva di affrontare quel tema.

L’efferatezza dei crimini nazisti rischiava inoltre di essere posta accanto alle responsabilità staliniane nella  terribile carestia del 1932-1933, l’Holodomor, definito nel 2008 crimine contro l’umanità in una risoluzione del Parlamento europeo. Ecco perché Ucraina senza ebrei fu accolto con riluttanza. La stessa rivista per la quale Grossman scriveva, Stella rossa, non volle pubblicarlo e trovò poi spazio in due giornali di minore diffusione.

Il fatto che gli ebrei non avessero uno stato e fossero sparsi in ogni paese risultò utile al nazismo, che aveva innalzato «il vessillo nero della guerra contro tutti gli stati e tutti i popoli del mondo».

Grossman è consapevole che l’antisemitismo era presente anche nei paesi democratici e che la condizione cosmopolitica e apolide degli ebrei è sempre stata vista con sospetto. Nel momento in cui l’antisemitismo assume il volto dell’ideologica diviene però, egli scrive, lo specchio in cui la società e i singoli vogliono identificare in una vittima sacrificale il responsabile di una situazione critica.

Quando ad esempio Dostoevskij si scaglia contro i mercanti ebrei, dimostra di voler attribuire loro la “colpa” di far prevalere l’affarismo sui valori della Grande Madre Russia. Dimostra anche però di non volersi riconoscere nel processo storico, non certo determinato dalle comunità ebraiche, che aveva condotto all’affermazione della borghesia e alla crisi del mondo feudale.

I due totalitarismi

La metafora dello specchio, in un momento in cui i due totalitarismi  del XX secolo si fronteggiano, si ritrova in Vita e destino, che Grossman scrisse nel 1959 e che, ostracizzato in Unione Sovietica, fu pubblicato postumo in Svizzera nel 1980. Dopo il 1945, in Grossman prevale il disincanto nei confronti dell’ideologia che aveva alimentato il mito della Grande Guerra Patriottica.

In Vita e destino il vecchio bolscevico Mostovskoj si confronta nel lager con un ufficiale delle Ss, Liss, da cui apprende che tanti comunisti rinchiusi da Hitler nei campi di concentramento erano già stati segregati in Urss da Stalin. In seguito al patto Molotov-Ribbentrop i sovietici consegnarono infatti ai nazisti i comunisti tedeschi che si erano rifugiati in Urss per fuggire alle persecuzioni.

L’antisemitismo, proseguiva  l’ufficiale tedesco, non era estraneo alle scelte politiche dell’Urss: «Oggi – diceva Liss a Mostovskoj – la spaventa il nostro odio per i giudei. Può darsi che domani vi avvarrete voi della nostra esperienza». La spietata analisi di Liss si trasformava poi in una sorta di anatomia del totalitarismo. Nello stalinismo, come nel nazismo, sosteneva, è lo stato-partito che «stabilisce il piano, il programma, e si accaparra la produzione».

Il nazionalismo era per lui la forza del XX secolo e il socialismo in un solo paese era la più alta espressione di tale forza. Sulla terra – diceva ancora a Mostovskoj, che non riusciva a contenere il suo disagio – ci sono due grandi rivoluzionari: «Stalin e il nostro grande capo. La loro volontà ha dato vita  al socialismo nazionale dello stato. Per me la fratellanza con voi  è più importante della guerra contro di voi per i territori orientali».

Per realizzare il socialismo in un solo paese Stalin aveva privato della terra i contadini, sterminandone un gran numero. Hitler, nella convinzione che gli ebrei ostacolassero il nazionalsocialismo, aveva deciso di distruggerli, concludeva Liss e, fissando Mostovskoj,  rimasto ammutolito, aggiungeva di sentirsi uno specchio di fronte a lui. Per Liss, lui e Mostovskoj, l’ufficiale delle Ss e il vecchio bolscevico, potevano infatti considerarsi «forme differenti di un unico essere».


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