2 ottobre 2018, Istanbul. Un distinto signore di sessant’anni entra nella sede del consolato saudita, deve ritirare dei documenti per il suo imminente matrimonio. Non sa che lì dentro ci sono ad attenderlo quindici uomini delle forze speciali e dei servizi di sicurezza sauditi, giunti poche ora prima con un solo obiettivo: ucciderlo e farne sparire il corpo. Quell’uomo si chiama Jamal Khashoggi, è il più importante giornalista saudita, per anni è stato la più nota voce riformista della stampa in patria, prima di essere costretto alla fuga negli Stati Uniti, dove ha continuato a scrivere per il Washington Post.

Chi lo voleva morto e perché, il terrificante sistema di spionaggio e censura messi in atto dalla monarchia saudita, sono al centro di The Dissident, documentario magistralmente diretto da Bryan Fogel, già premio Oscar nel 2018 per Icarus.

The Dissident in Italia è reso disponibile da Lucky red presso la piattaforma streaming Miocinema. Da noi come in molti altri paesi, né Netflix né altre piattaforme ben più importanti hanno voluto distribuirlo, temendo possibili reazioni da parte dell’Arabia Saudita. Guardare i 119 minuti di questo documentario dà anche un diverso significato a cosa si intenda con il termine “reazione”, quando si parla dei vertici sauditi.

Controllo informatico

The Dissident parte da quella terribile giornata, ricostruisce minuziosamente l’assassinio di un uomo che dal 2016 era entrato nella lista nera del principe Mohammad bin Salman, deciso a far diventare l’Arabia Saudita partner economico preferenziale degli Stati Uniti e a concentrare nelle proprie mani un potere assoluto.

Attraverso le testimonianze della fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, di numerosi ex colleghi, esperti di intelligence e inquirenti, emerge il ritratto di un giornalista coerente e coraggioso, assassinato ferocemente da un governo spietato e amorale. Il racconto della vita di Khashoggi si sovrappone a quello della sua collaborazione con il connazionale Omar Abdulaziz, dissidente costretto all’esilio in Canada da diversi anni.

Nella foto: Bryan Fogel e Hatice Cengiz (Photo by Taylor Jewell/Invision/AP, File)

La sua lotta contro il governo saudita, è l’opportunità per guardare dentro la mostruosa macchina repressiva di bin Salman. Ciò che vi si vede, è a dir poco raggelante. L’Arabia Saudita a oggi è senza dubbio uno dei paesi con l’apparato di spionaggio e controllo informatico più avanzati del mondo, capace di raggiungere chiunque e attaccare dovunque impunemente.

In The Dissident, Fogel rivela al pubblico le due principali armi cibernetiche utilizzate dal governo saudita: le “mosche” e “Pegasus”. Con il primo termine, si intende lo sterminato numero di account fittizi utilizzati dalla macchina informatica saudita per sommergere di attacchi i profili social di ogni dissidente e di chiunque lo sostenga. Pegasus invece, è uno spyware di fabbricazione israeliana, acquistato dai sauditi per la sua capacità di hackerare i dispositivi mobili, permettendo un controllo e monitoraggio pressoché totali.

La tecnologia, che doveva essere la risorsa decisiva per la spinta democratica nei paesi del Medio Oriente, è divenuta il miglior alleato dei vecchi regimi autoritari come la monarchia saudita, decisa a evitare una nuova primavera araba.

Twitter è utilizzato da otto cittadini sauditi su dieci, è l’agorà che bin Salman ha capito di dover dominare per controllare l’opinione pubblica e zittire la voce dei dissidenti. Khashoggi era la più potente di queste voci, quella che egli più temeva già ai tempi in cui egli era il volto più noto della stampa saudita. Aver scelto di appoggiare la rete dissidente di Omar Abdulaziz, è stata la condanna a morte di Khashoggi, eseguita alla prima occasione per diretto ordine di bin Salman. Una verità che Fogel rende palese fornendo prove a dir poco scioccanti e inconfutabili.

Censura e repressione

La libera circolazione delle idee è vista come il peggior nemico da bin Salman, che usa il petrolio come arma nella politica estera, ne sfrutta i proventi per rendere il sistema di repressione interno sempre più sofisticato ed efficiente.

Viene descritta con raggelante meticolosità la preparazione e l’esecuzione del delitto di Khashoggi, la rete di complicità, come ci si è sbarazzati del suo corpo. È un viaggio dentro un regno dell’orrore, dentro la mente di bin Salman, ed è una mente dominata da un narcisismo estremo, da violenza, bugie, un assoluto disprezzo per la dignità umana. Ambiziosissimo, astuto e vendicativo, si dimostra capace di arrivare a minacciare addirittura un uomo come Jeff Bezos, ceo di Amazon e proprietario di quel Washington Post da cui Khashoggi attaccava la monarchia saudita.

Bezos non ha fermato gli articoli di quel giornalista, ha fatto un passo indietro sugli investimenti promessi in Arabia Saudita dopo le rivelazioni della stampa sulla sorte di Khashoggi. Anch’egli dev’essere punito. E infatti scopre di essere stato hackerato, che le informazioni sensibili carpite dall’intelligence saudita sono state date in pasto alla stampa occidentale per distruggerlo.

Questa è la diplomazia per bin Salman, questo è il “Rinascimento” dell’Arabia Saudita.  

La complicità dell’occidente

Davvero è il caso di avere più contatti del necessario con queste monarchie autocratiche? Questa domanda sorge spontanea mentre lo sguardo si posa su grattacieli immensi, residenze da Mille e una Notte, tecnologie di ultima generazione, in cui la modernità convive con una ferocia antica e tribale.

Dietro i sorrisi e le strette di mano, l’assolutismo, i parenti dei dissidenti all’estero che vengono incarcerati e torturati, decapitazioni pubbliche, pene corporali, l’assoluta mancanza della possibilità di manifestare il pensiero, pena l’eliminazione fisica, come capitato a Khashoggi.

The Dissident ci obbliga ad affrontare la realtà: ogni investimento o contratto, ogni mondiale di calcio o G20, è benzina nel motore di una macchina fatta di terrore e oppressione.

Più che invidiare all’Arabia Saudita un costo del lavoro tenuto basso grazie a lavoratori trattati come schiavi e sottoposti a ogni violenza, dovremmo invidiargli di aver avuto un giornalista come Jamal Khashoggi, che non ha mai ceduto ad alcun ricatto e minaccia, che è stato esempio del perché la verità rende liberi.

© Riproduzione riservata