Quando ho letto per la prima volta L’arte del romanzo di Milan Kundera (edizione Gallimard, poi tradotto da Adelphi che ora lo ripubblica) era il 1986 e io stavo proprio in mezzo al guado nella lunga elaborazione di Scuola di nudo; il libro di Kundera ha influito parecchio sui miei pensieri di allora e su quella che senza vergogna posso chiamare la mia “poetica”.

È naturale che rileggendolo adesso mi chieda che cosa è ancora valido e che cosa invece mi pare superato. Le due cose che più mi colpirono, e che mi convinsero in pieno, furono 1) l’idea che il romanzo ci fornisce un tipo particolare e non surrogabile di conoscenza e 2) l’intuizione di un “io sperimentale” (più radicale e coraggioso dell’io empirico).

La complessità dell’essere

Secondo Kundera quel che «solo un romanzo può scoprire« è la complessità dell’essere, la sua irriducibilità a concetti razionali e astratti. In un vero romanzo, sostiene, «ogni pensiero dogmatico diventa ipotetico», il romanzo ha «la saggezza dell’incertezza» – mentre la razionalità astratta ci dice che di due tesi opposte (o di due posizioni esistenziali tra loro ostili) una dev’essere necessariamente giusta e una sbagliata, il miracolo del romanzo consiste nel farci percepire i torti e le ragioni di entrambe le parti in conflitto, contemporaneamente.

La sua ambiguità valoriale è dunque costitutiva. Non si può apprezzare il romanzo di Tolstoj se non identificandoci allo stesso tempo con Anna e con Karenin, né quello di Flaubert se non cogliendo i difetti e i pregi sia di Emma che di Charles Bovary. «Il romanzo», scrive, «non prende in esame la realtà ma l’esistenza»; la missione del romanzo è farci sapere, raccontando esistenze individuali, a che punto è il mondo.

Questo lo fa essenzialmente attraverso la sua forma e le sorprese della composizione; la complessità dell’essere si rivela all’autore solo mentre scrive. Per questo, dice ancora Kundera, i veri romanzi sono sempre un po’ più intelligenti del loro autore, e se uno scrittore si pretende più intelligente della propria opera è meglio che cambi mestiere. Già allora lamentava che «oggi si preferiscono le idee alle opere».  

Fatti e tesi

Da questo punto di vista mi pare che le cose siano semplicemente peggiorate: i fatti e le tesi hanno preso decisamente il sopravvento, inclusi i fatti della psiche come crediamo già di conoscerli; troppo spesso gli scrittori progettano un romanzo sapendo già quali sentimenti vogliono spremere dai lettori (e da sé stessi).

Per non parlare dell’attuale ossessione sullo “schierarsi” richiesto ai romanzieri, non in quanto cittadini ma proprio nelle loro opere. Si favoleggia che nelle case editrici americane vengano stipendiati dei “sensitivity readers” che avrebbero il compito di segnalare agli scrittori gli stereotipi offensivi presenti nei loro testi; caccia allo stereotipo per realizzare uno stereotipo d’ordine superiore.

Già nel 1986 Kundera si lamentava dei mass media che «distribuiscono nel mondo intero le stesse semplificazioni e gli stessi luoghi comuni»; all’epoca sembrava che tra mass media e intellettuali critici il duello fosse possibile, ora la tecnologia della comunicazione è diventata talmente pervasiva che ha quasi completamente condannato i propri critici all’inesistenza.

Nel saggio specificamente romanzesco (ecco un altro dei miei debiti) sul Kitsch, che sta nell’Insostenibile leggerezza dell’essere («il Kitsch è l’assoluta negazione della merda»), c’è già una profezia dell’attuale benpensantismo social, che usa la merda nei commenti per aumentare il proprio “engagement rate”. Insomma, l’impressione è che Kundera sia ancora vivo nella sua denuncia ma che parli da un luogo sempre più inesistente.

Protagonismo dell’io 

Lo stesso per quel che riguarda l’io sperimentale: per me fu una folgorazione capire che i fatti autobiografici potevano anche non configurarsi come semplice memoir ma si prestavano a essere una rampa di lancio per andare a esplorare l’aria del tempo. Ora l’io sperimentale viene sfruttato soprattutto nell’ironia e nella comicità, mentre nelle scritture che si prendono (e vengono prese) sul serio predomina l’io testimoniale.

È la commozione immediata della vittima quella che si cerca nei romanzi e nei podcast, dando la parola alla vittima stessa o peggio adottando una miserabile “prima persona” in cui un autore che sta tranquillo al calduccio fa finta di parlare a nome della vittima (togliendole quindi la parola invece di dargliela).

Più il protagonista-testimone è etichettabile, più viene percepito come “autentico”. Esiste un galateo del finto romanzo, del romanzo che lascia tutto intatto dopo il suo passaggio o che anzi ti rafforza nelle opinioni che avevi prima di leggerlo.

Geneticamente modificato

Una delle affermazioni più nette di Kundera è «il romanzo è incompatibile con l’universo totalitario». Comprensibile nel contesto delle sue vicende personali, di chi ha visto Kafka “realizzato” in Unione Sovietica. Il romanzo problematico come lui lo intende è censurato in Urss, eppure in Urss vengono ufficialmente letti e laureati moltissimi romanzieri, com’è possibile questo paradosso ? La risposta di Kundera è interessante: possono «esistere romanzi dopo la fine della storia del romanzo».

È l’effetto che mi fanno molti romanzi contemporanei; come se il vero totalitarismo “del mondo libero” consistesse nel diffondere la paura e il bisogno di difesa, per cui non ha nemmeno bisogno della censura per cancellare lo spirito d’avventura conoscitiva del romanzo, gli basta annegarlo in una marea di altri finti romanzi che gridano più forte.

Tutto quello in cui Kundera credeva (e io con lui) ha ancora il medesimo aspetto ma si è geneticamente modificato; il romanzo si muove «in un mondo che non è più il suo».

Eurocentrismo

Ma allora, viene da pensare, se è stato così smentito dalla Storia, non è che il romanzo secondo Kundera è in realtà un suo idolo di speranza, l’estrapolazione letteraria del potere culturale eurocentrico?

In effetti Kundera lo afferma esplicitamente: «Il romanzo è opera dell’Europa», si è formato tra Cinque e Seicento nell’Europa del sud (Ariosto, Rabelais, Cervantes) poi si è diffuso nel mondo anglofono e ha trovato forse il suo massimo momento di autocoscienza nella Mitteleuropa otto-novecentesca.

Questo è l’atlante di Milan Kundera uomo empirico e uomo di cultura, né Murasaki né Il sogno della camera rossa. Non ama la mondializzazione (“l’unificazione della storia del pianeta, questo sogno umanista di cui Dio ha malignamente permesso la realizzazione”), non ha fatto in tempo a conoscere gli studi post-coloniali. «Europeo: colui che ha nostalgia dell’Europa».

Kundera scrittore ci ha regalato testi densi di possibilità e di allegria, di politica non conforme e di azioni sconcertanti, un monumento ancora imponente contro il “tùrbine di riduzione” del falso impegno unanimista.
Ma l’Europa sta diventando periferia in termini geopolitici e, coi dovuti décalages, in termini culturali; stanno cambiando i pesi relativi e di conseguenza cambieranno i canoni e le poetiche. Forse non è più tempo di densità e ambiguità.

Il romanzo è abituato da secoli a “fare la muta” come i serpenti. L’altro giorno, in una grande libreria milanese, ho scorso i titoli degli scaffali intitolati “booktok” (i libri consigliati dai tiktoker di successo): su circa sessanta volumi ho riconosciuto solo il nome di Donna Tartt: certo, mi sono detto, molti saranno non-romanzi secondo il mio (kunderiano) modo di vedere; ma nascosto dentro uno di quegli scaffali, prima o poi, ci sarà il germe del nuovo tipo di romanzo che non arriverò a vedere.

                       

       

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