Pochi sanno filmare il desiderio come Luca Guadagnino che con Challengers colpisce lo spettatore come se fosse una pallina da tennis battuta a suon di tecno all’interno di un triangolo amoroso che trasuda eros, rivalità e non detti. Il film, che da poche settimane è in sala, ha già incassato più 32 milioni di dollari in tutto il mondo diventando il più grande successo commerciale e di critica di uno dei registi più ecclettici e liberi del cinema mondiale.

Adorato dalle star, dagli stilisti e dalle giovani generazioni Guadagnino rimane nel privato un eterno fanciullo timido e irrequieto che si illumina parlando di Bernardo Bertolucci o di Raul Ruiz.

Roland Barthes diceva che il colpo di fulmine avviene sempre attraverso un’immagine. Quali sono le immagini che l’hanno fatta innamorare del cinema?

Ci sono scene al cinema che mi hanno influenzato in maniera inesorabile: Lawrence d’Arabia è stato un’epifania, vissuta come una scena primaria. Vidi il film insieme ai miei genitori e fu come scoprirli sul grande schermo mentre facevano l’amore, anzi, vidi mia madre tra le braccia di Peter O’Toole e capii la trasgressione del femminile in casa rispetto al maschile, eppure mio padre aveva gli stessi occhi di O’Toole…

Fare cinema è terapeutico per lei? Qual è il personaggio dei suoi film che la racconta meglio?

Credo che il cinema possa essere complicante più che terapeutico, produce dolore piuttosto che liberazione. In ciascuno dei miei film, ogni personaggio in qualche modo è parte di me. Lo sono tutti.

Anche il personaggio interpretato da Zendaya ?

Inevitabilmente. Lei, Tashi Duncan, è una regista che dirige, manipola, forgia e “maieuticamente” tira fuori qualcosa dagli attori da cui è attratta, ma vuole soprattutto vederli scontrarsi. Completamente… Tashi Duncan, c’est moi ! Però anche Art Donaldson (Mike Faist) con la sua malinconia, o Patrick Zweig (Josh O’Connor) col suo atteggiamento provocatorio.

In una Hollywood sempre più puritana, tornare a sessualizzare i personaggi, a filmare i corpi, a spogliare uomini in un blockbuster atipico come Challengers, è un atto sovversivo?

Non era il mio scopo, Il film affronta tematiche che portano inevitabilmente i due protagonisti in uno spogliatoio: si tolgono la maglietta, fanno la sauna, c’è una tensione enorme, sono rivali in amore, ma tra di loro c’è anche un desiderio represso.

Dalla preparazione del film fino alla proiezione finale, il nudo o l’erotismo non è mai stato un argomento. Non c’è stato nessun antagonismo con gli studios, non ho dovuto lottare.

A parte il passaporto, che cos’è che la rende un cineasta italiano?

Ho messo poche radici, ma ho comunque un’identità italiana. Sono un italiano che ha da subito amato il cinema e compreso che il cinema che amavo non era confinabile nei registri nazionali. Per me un grande film di Claude Chabrol va al di là delle frontiere del cinema francese, al massimo può appartenere alla nouvelle vague.

Un film di Idrissa Ouédraogo non appartiene al cinema burkinabé, come nemmeno un film di Nagisa Oshima appartiene a quello giapponese. Per me il cinema è cinema. Parafrasando Truman Capote, il cinema «non avendo geografia, non conosce confini».

Quanto hanno influito le sue radici algerine e i suoi ricordi di infanzia in Etiopia nella sua arte ?

Sicuramente ho vissuto una condizione di identità legata a una differenza costante: italiano in Etiopia, etiopico algerino in Italia, scuro di carnagione in un mondo di gente dalla pelle chiara, alto in un mondo di bassi, con un desiderio verso gli uomini in un mondo in cui quella cosa non la puoi dire.

Ho sempre vissuto così, ma ho sempre compreso che il mio posto era felicemente fuori dal concetto di inclusione, e dunque di esclusione. Non mi interessa essere dentro quel tipo di ring, di quadratino soffocante, di tinello che la mia amica Arianna De Rosa definisce “piccola borghesia” da cui tra l’altro provengo.

A proposito di tinello è stato difficile costruirsi fuori dal cerchio molto ristretto del cinema italiano?

Ho avuto il privilegio di conoscere persone meravigliose come Walter Fasano, Fernanda Perez e molti altri con i quali ho costruito una famiglia di lavoro magnifica. E anche di essere amico di un’artista come Laura Betti, di cucinare per lei, per i suoi amici, di guardare il gotha della cultura italiana degli anni in cui crescevo dalla posizione molto vantaggiosa dell’invisibilità. Chi era quel ragazzino magro che cucinava così bene e che stava lì in un angoletto silenzioso? Li guardavo, li osservavo e li conoscevo…

Intendevo la difficoltà di entrare nella cosiddetta industria del cinema italiano.

Non c’è stata nessuna difficoltà, proprio perché non c’è stata nessuna vocazione a un’appartenenza, nessuna porta da dover sfondare, proprio non mi interessava.

Che cosa pensa del cinema italiano attuale, dei suoi protagonisti?

Si è creata una agglutinante solidificazione di alcune personalità che hanno prodotto con determinazione e coerenza dei lavori con un’identità molto forte.

Questo è successo al di là dei limiti strutturali evidenti di un’industria che continua ad essere legata a una politica governativa che, contrariamente a Hollywood o a paesi come la Francia, non garantisce una continuità artistica e produttiva.

È un’industria incostante che non protegge i suoi lavoratori e che rimane molto diffidente verso tutto quello che vuole uscire dai canoni. Quindi ammiro molto quelle voci che nel tempo sono riuscite a rimanere coerenti con sé stesse.

Chi sono queste voci?

Per esempio Michelangelo Frammartino che ha un’idea di cinema compatta, coerente e una capacità di messa in scena potente. Così come Paolo Sorrentino, sono molto curioso di vedere il suo nuovo Parthenope, dove ribalta lo sguardo di un cinema che è sempre stato molto maschile, e si mette dal punto di vista di una donna. Sono curioso di capire come racconterà questa sua nuova ossessione.

Che rapporto ha con la critica?

Nasco come critico e amo l’arte della critica cinematografica, sono molto amico di diversi critici e in costante dialogo con loro, inclusi quelli che sono i miei più severi recensori, per esempio: Armond White (National Review) che mi ha definito più di una volta in maniera poco lusinghiera ma il cui ragionamento per me è sempre stato stimolante, intelligente e profondo.

Amo i critici e tornerei anche a scrivere di cinema se non vivessimo in un mondo in cui il conflitto è tagliato via e in cui non si può offendere nessuno.

È difficile non diventare megalomani quando si fa il regista?

Il regista è megalomane, è una persona che crede di poter creare il mondo. Un vero grande regista deve esserlo ma deve anche avere la disciplina di un generale cinese o di un membro del partito comunista cinese che sa come muoversi in maniera rigorosa.

Oltre a Queer con Daniel Craig (tratto dal libro di William S. Borroughs) che sta finendo di montare, le riprese di Camere separate, dal romanzo di Pier Vittorio Tondelli, il documentario Joie de vivre su Bertolucci, qual è la sua prossima sfida megalomane?

Ah non lo so… mi piacerebbe comunque fare un film d’azione, in cui spazio e corpi si scontrano. Come possiamo dimenticarci il corpo quando pensiamo al cinema? Fare cinema è un’esigenza interiore che mi permette ancora di meravigliarmi di fronte a una cosa che prende forma.

Domanda di rito: il cinema le ha salvato la vita?

Perché dovrei avere avuta salvata la vita? Conduco una vita modesta e molto pragmatica, non faccio cose pericolose, non ho avuto problemi di instabilità emotiva tali da dover cercare un’ancora di salvezza.

Ho avuto alti e bassi economici, ma mi sono sempre barcamenato anche grazie alla grande generosità dei miei amici. Il cinema è la mia esistenza da sempre e lo sarà per sempre, senza la necessità di salvarmi da nulla.

Diciamo che siamo tutti salvi e siamo tutti dannati… specialmente in questo momento storico in cui una destra galoppante, che promuove la profonda ineguaglianza, si è travestita da ragionevolezza inevitabile, meglio ribellarsi liberando il desiderio sullo schermo.

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