Nato per dare forma, insieme alla sua generazione, al nuovo secolo, Pier Vittorio Tondelli muore prematuramente il 16 dicembre del 1991, pochi giorni prima di Natale, pochi anni prima della fine del Novecento. Morire prematuramente, lo si era già intuito negli anni Ottanta, diviene troppo spesso il motivo di quella generazione, la prima a non essere segnata da una guerra, la prima a morire giovane senza colpo ferire.

La fine di un annuncio

In quel 1991 molto del Novecento letterario ha già abbandonato la scena, inutile fare l’elenco, i primi nomi che saltano alla mente sono quelli di Giorgio Manganelli, Italo Calvino, Goffredo Parise e ovviamente di Pier Paolo Pasolini: il corpo straziato del poeta è quello di un paese che sembra da lì in poi regredire al peggio della sua provincia.

L’Italia spaventata da un nuovo ordine globale che si preannuncia liberatorio e liberale, quanto capitalista e liberista, si rinchiude in un localismo provinciale – un tempo povero e ora quasi sempre ricchissimo – che preannuncia una rivoluzione populista, mascherata da morale, che porterà al tracollo culturale e sociale le grandi città italiane da Milano a Torino, da Roma a Firenze: centri di una cultura fino agli anni Ottanta effervescente quanto contraddittoria.

La Lega lombarda poi Lega nord raccoglie una frammentazione sociale e politica sotto il cappello di una rivolta urlata quanto accomodante: si sfida un potere a fine corsa preannunciando un liberi tutti che non avrà ripensamenti. Un gioco al ribasso che verrà facile vista l’assenza che segna gli anni Novanta. Il 1991 vede a ottobre la scomparsa di Natalia Ginzburg, una dipartita anche simbolica che chiude un tempo, quello dell’Einaudi che da Leone Ginzburg a Giulio Einaudi aveva avuto una continuità editoriale e politico-culturale solidissima (nonostante le perenni difficoltà economiche).

Ma la morte di Pier Vittorio Tondelli segna invece la fine di un annuncio, la fine di una presenza che pareva ormai forte e radicata nel panorama culturale e politico italiano. Il Novecento si chiude senza troppi complimenti e – almeno allora – senza particolari rimpianti. Il nuovo secolo si apre così in un campo aperto in cui l’Italia e la sua classe dirigente sembrano incapaci d’intuirne complessità e dinamiche. Chi dovrebbe farsi portatore di una visione nuova e lucida sembra infatti ripiegare in un impasto di nostalgia e rimpianto difficile da sbrogliare. Un lunghissimo after oggi poco giustificabile se non per la perdita di alcune figure sostanziali di cui Pier Vittorio Tondelli diviene sempre più rappresentativo.

Una perdita del comando che segue una rivoluzione pretesa e in parte sbagliata che, se ebbe il merito di aprire a riforme giuste e necessarie, restò per chi la visse esclusivamente come una cocente sconfitta, dentro alla quale ogni visione futura si ruppe frantumandosi per sempre. L’immaginazione si ritorse da prospettiva gioiosa ad angosciante ripiegamento. Da qui alla gioiosa macchina da guerra e alla più spericolata sconfitta elettorale della sinistra nel 1994 il passo fu breve.

Una figura cruciale

Tornare dunque a Tondelli vuol dire così rimangiarsi nostalgia e rimpianti e rimettere cuore e testa verso un’idea letteraria che fu straordinaria e mancata, popolare e filosoficamente raffinata.

Ho sempre cercato tutto (Bompiani) di Antonio Spadaro, che in parte rifà il Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, è un testo acuto e necessario che ripercorre il percorso biografico e letterario di Pier Vittorio Tondelli con una precisione e una puntigliosità rare. Un gusto per la pagina e un affetto per la letteratura di Tondelli che traspare in ogni riga del libro. Ho sempre cercato tutto è un testo critico, ma lo è anche perché omaggio a una figura esistenzialmente cruciale, un maestro che non volle e non poté farsi tale, ma che attraverso la sua assenza celebrò la propria lezione permanendo ostinatamente negli anni più duri del post (e dei vari post) – soprattutto per chi restò, subendoli più che vivendoli – quale riferimento sempre appellabile tanto alla ragione quanto al desiderio.

Spesso Tondelli viene letto all’interno di una parabola che vede l’autore nascere come ribelle e poi maturare all’interno di un discorso che si fa mistico e religioso. In realtà, come coglie e spiega Antonio Spadaro, Tondelli attraversa un pensiero fortemente radicato fin dalla sua prima pagina dentro al quale da sempre convivono rivolta e riflessione, ma soprattutto vive un’ispirazione religiosa mai superficiale e sempre centrale nella sua visione letteraria quanto esistenziale. Anche quanto questa ispirazione viene inizialmente negata e in un certo senso maltrattata.

Discorso critico

Figlio della provincia italiana, nato a Correggio nel 1955, Tondelli è un condensato di quel mondo che come ha detto Giovanni Lindo Ferretti (altro rappresentante di una resistenza alla banalità tipica di quel miscuglio antropologico fatto di punk e di feste popolari) dalla via Emilia porta direttamente a Berlino in un flusso vertiginoso e rapidissimo. Una linea continua sulla quale convive l’asprezza provinciale e la sua ottusità bottegaia così come la genialità assurda di quelli che poi Ermanno Cavazzoni ritrarrà nel 1994 in Vite brevi di idioti.

Tondelli è uno dei figli esemplari del Dams di Bologna, ovvero di Umberto Eco e di Gianni Celati, ma è anche il corpo vivo che attraversa gli anni della disco che prende piede portando Bologna a Milano e Milano in quel perenne tentativo di essere parte attiva del mondo (dalla Milano da bere al che piace alla gente che piace) che negli anni ha assunto sempre più il carattere di un vizio ridicolo. Quello che resta oltre al gioco vacuo e divertito di una festa in costume sono così, tra le poche cose sostanziali, i libri di Pier Vittorio Tondelli. Libri che negli anni risplendono di nuove letture e riletture come sa mostrare con sagace analiticità Antonio Spadaro, ma resta anche e molto la parodia del Tondelli pensiero (da cui Spadaro ovviamente rifugge), ovvero il tentativo di portare l’autore di Correggio là dove non è mai stato, dandogli anche una responsabilità che non gli compete rispetto alle mode e ai canoni.

Tondelli, parte luminosa di una generazione e suo solido riferimento, viene non di rado frainteso in quanto elemento di punta di un discorso che fu in verità più critico che affine al suo tempo. L’autore di Altri libertini, Pao Pao, e Rimini seppe infatti utilizzare del suo tempo le mode e i vezzi per evidenziarne i cliché e le derive.

Se la sua morte ha generato – insieme ad altri elementi contestuali – un abbandono del campo culturale e politico non è così imputabile a un pensiero apparentemente leggero che come segnala Spadaro vive di un tormento religioso continuo e a tratti estenuante e che troverà requie solo in quel doloroso e rivelatorio attraversamento dell’addio che sta al centro di Camere separate.

Spadaro con la sua preziosa analisi restituisce fiato e visione al lavoro di Tondelli contestualizzandolo a livello letterario. Un’analisi raffinata e strutturata – come raramente ancora oggi si usa fare – che agisce su ogni singola opera di Tondelli per offrire non tanto una profondità di analisi filologica, ma per evidenziare quell’impronta originale che ha segnato il terreno e mutato un discorso all’interno di una logica d’innovazione della tradizione che è frutto da un lato della spinta autoriale originale di Tondelli e dall’altro di un insegnamento che vede nelle lezioni di Gianni Celati un riferimento chiaro e limpido.

Un pensiero letterario che s’inocula nella scrittura di Tondelli divenendo sintesi tra tempo e storia, tra il luogo e il senso della sua permanenza. Se Enrico Palandri anticipa i temi che ribollono nella Bologna di quegli anni con Boccalone, Tondelli offre direttamente una rielaborazione capace di evidenziare quel genius loci che connette una possibile visione dell’Italia contemporanea. Una visione capace di giocare su più livelli superando non tanto l’alto e il basso e nemmeno l’apocalittico e l’integrato, ma il culturale come necessario e obbligatorio elemento di accesso alla partecipazione e alla condivisione sociale. Quell’essere culturale con cui si ammanta ogni cosa per darne credibilità. Una parola ridotta a passe-partout capace di avallare un discorso meramente esclusivo anche quando questi vive nel popolare divenuto nel frattempo pop e ultra pop.

Baldoria festosa e tragica

Tondelli riesce a tenere insieme quella tensione dentro alla quale culturale o peggio ancora la sua formula più ridicola ovvero “democrazia culturale” non hanno alcun motivo di essere, restituendo piena libertà all’essere letteratura come all’essere democrazia. Una tensione che non può non sostanziare che in una forma di permanenza che si alimenta di una vivacità mistica che è parte integrante di quella capacità tutta tondelliana di giocare con gli elementi con una leggerezza che sta in quell’infinito immateriale che è poi declinabile in una sarabanda rosa shocking che da Elsa Schiapparelli arriva ad Alberto Arbasino che da Roma porta a Rimini e a Federico Fellini.

Una baldoria festosa e tragica perennemente tracimante. Quel cercare tutto che sta anche là dove le cose, la sostanza, e la roba in pratica seppero solo dire e vedere il niente. Niente e tutto dunque quali poli irrinunciabili e intercambiabili a patto di dare alla letteratura il gusto di una gentile e irriverente rivolta. Una lotta che assume pienamente senso perché sempre nuda e disarmata di fronte alla vita.

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