Del mio sentirmi inutile e inadeguata di fronte a qualsiasi tema del reale ho già scritto circa un mese fa, quando mi autodenunciavo come piattino da burro (mentre ora mi autodenuncio per essermi autocitata). Tutti si affannavano a prendere posizione – una posizione qualsiasi, anche sbilenca, violenta, o semplicemente stupida, ma sempre nettissima – su quello che stava succedendo da pochi giorni in Medio Oriente, i caroselli di Instagram ci spiegavano da che parte stare con l’aiuto dei disegnetti, e io non potevo fare a meno di chiedermi perché io questa urgenza non ce l’avevo. Mi sono fatta piccola, piattino da burro, e ho deciso che il mondo poteva continuare a girare anche senza conoscere il mio parere sulla questione.

Il problema si è ripresentato questa settimana. L’omicidio di Giulia Cecchettin da parte dell’ex fidanzato è stato occasione di dibattito, tradotto in un’ondata di rabbia ma anche nella strumentalizzazione identitaria di cui ha scritto benissimo Jonathan Bazzi qualche giorno fa su queste pagine. Abbiamo assistito al solito spettacolo di arte varia ed egocentrismo a tutto spiano: uomini offesi in quanto non-assassini, uomini contriti che ostentano sensi di colpa atavici, uomini che pensano di poter combattere la violenza di genere postando una foto molto ravvicinata del loro alluce (a questo proposito chiederei delucidazioni a Marchisio). Molte persone arrabbiate, arrabbiatissime, che promettono di bruciare tutto e non bruceranno alcunché, perché fra un mese ci sarà qualcos'altro per cui mostrarsi indignate e stranamente la cartolina militante condivisa nelle stories con i suoi bravi hashtag non avrà risolto questo problema millenario delle donne che vengono ammazzate dagli uomini.

“Nervosette”

Però di nuovo pensavo: ma non è che questa cosa mi riguarda più di così? Non è che dovrei essere più sconvolta? Non è che con questa storia dei problemi ancestrali e complessi davanti a cui non posso nulla mi sto dimenticando di avere una coscienza politica? Se niente serve a niente, cosa stiamo facendo in questa vita?

Mentre mi avvilivo per la totale irrilevanza della mia persona nella società, e contemporaneamente mi sentivo migliore di tutti già solo per il pensiero critico che cercavo di applicare ai fatti, la realtà veniva in mio soccorso a mostrarmi ancora una volta le lacune del metodo dello struzzo e mi toccava ripulirmi la testa da una manciata di sabbia.

Sto aspettando l’ascensore nel palazzo in cui lavoro e intanto scambio due parole col portinaio. Faccio un commento su una ragazza che conosciamo entrambi, la definisco “nervosetta”, e mentre saluto il portinaio e salgo in ascensore alle mie spalle si inserisce un signore sulla sessantina che monta insieme a me, asserendo che «tutte le donne sono nervosette». Siamo soli, sta parlando con me. Non dice “buongiorno”, non mi chiede se può salire. Si introduce nella mia vita senza chiedere permesso, con la ferma convinzione che tutte le donne sono nervosette. Seppure io non stessi usando “nervosetta” con accezione negativa, ho l’impressione che il signore abbia appena cambiato il senso della parola. Lo dice con il tono che devono aver usato per anni i medici ogni volta che prescrivevano lobotomie alle pazienti depresse. Non sta pensando con affetto a un’adorabile Judy Davis in Harry a pezzi, ma alla moglie che sotto sotto odia da anni.

Io non amo litigare, soprattutto alla mattina, quindi nello spazio ridotto di un vecchio ascensore, alle 9 meno 5, mi limito a rispondere «ma no è vero», e lui, irremovibile nella sua faccia da cazzo, mi fa «sì sì, tutte». Sento che mi sto effettivamente innervosendo, ma non intendo dargli questa soddisfazione mostrandomi nervosetta, quindi arrivo al quarto piano in un silenzio ostile e poi gli auguro una buona giornata, alzando un po’ troppo la voce.

Disfattismi

Questo scambio, durato nel complesso 28 secondi, mi assilla per il resto della giornata. Continuo a pensare a tutte le risposte sagaci che avrei potuto dargli e all’immagine dell’ascensore che precipita con lui dentro. A irritarmi non è l’offesa in sé – nella mia bio di Instagram si legge «sono un fascio di nervi», non mi offende essere ascritta all’insieme delle nervosette – ma l’arroganza con cui questo sconosciuto si è sentito di poter decretare senza alcuna ironia una verità assoluta, applicandola all’intero genere femminile, e imponendola a me, una donna. Una perversione che avevo riscontrato fino a quel momento solo in alcuni tassisti particolarmente villani, che per qualche ragione, in occasioni diverse, mi hanno spiegato perché le donne sarebbero pessime clienti, le peggiori. Uno di loro aveva anche opinioni scomode sulla gratuità degli assorbenti trovati non so dove: «Allora mi devi regalare pure le lamette per la barba», aveva concluso il signore prima di evadere il fisco e farmi pagare la corsa in contanti.

Ad accomunare tutti questi spiacevoli incontri sono sempre io, piattino da burro ma anche statua di sale. Mi piacerebbe raccontare finali diversi di queste storie, mi sogno risposte a tono e tirade femministe, e invece resto perlopiù impassibile e mi faccio venire molte gastriti retroattive, concludendo che non sarò io a educare un cialtrone di sessant’anni in 28 secondi.

Si è parlato molto in questi giorni di come educare gli uomini sulla violenza di genere (di nuovo, rimando all’articolo di Bazzi, ma anche a Paolo Giordano sul Corriere della Sera) e di questa operazione – che ad oggi sembra ancora utopistica – intravedo due esiti possibili, entrambi molto insoddisfacenti: da una parte le forzate ammissioni di colpe di cui sopra, dall’altra un’ulteriore polarizzazione dei due punti di vista, femmine contro maschi.

Eppure alla fine sono infastidita dal mio stesso disfattismo, sono frustrata dalla mia desensibilizzazione. Così, come sempre, ho cercato una motivazione fuori da me: sarà perché vivo in una bolla dove gli uomini sono progressisti, civili e non violenti fino a prova contraria, consapevoli dei propri privilegi e orripilati dall’ennesimo femminicidio quanto lo siamo noi. Lavoro in un ufficio di sole donne. Mio padre dice “medica di base”. Solo che, se c’è una cosa che ormai abbiamo imparato, è che chi ci farà del male non se ne va in giro con un cartello appeso al collo per avvisarci del pericolo. La violenza è spesso insospettabile.

Tutto questo mi sembra che rappresenti uno stallo. A questi maschi qui, i bravi maschi, non si chiede mai niente di più. Guardo le foto delle manifestazioni di questi giorni, c’è una marea di donne, qualche bravo maschio sparuto qua e là. Sono ancora troppo pochi e questo mi rende nervosetta.

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