Da quando, a fine 2022, ha cominciato a diffondersi una nuova generazione di sistemi di intelligenza artificiale (il più noto dei quali è ChatGpt), si sono moltiplicate le lamentazioni e le cupe profezie su quali attività umane questi sistemi andranno a rimpiazzare. Alcune di queste hanno trovato eco nella conversazione intorno alla letteratura, che non ha mai nascosto il proprio debole per lamentazioni e cupe profezie. Ci si domanda quali professioni editoriali avranno un futuro, ed è una domanda ragionevole. I sistemi di Ia potranno trovare refusi in un romanzo meglio di un umano? Di certo. Riassumerne in un attimo la trama? Sì. Tradurre Dumas? Probabilmente sì. Tradurre Joyce? Probabilmente no. Interi settori professionali sono sull’orlo di una trasformazione rapida e profondissima – anche se forse meno violenta e pericolosa di quella che subiranno, ad esempio, la sanità e il diritto.

Ma queste domande ragionevoli sono spesso seguite da una che ha qualcosa di irragionevole, quasi di sacrilego, eppure non per questo sembra meno plausibile. Lo tsunami che travolgerà di certo i correttori e probabilmente i traduttori arriverà a toccare gli autori? Le intelligenze artificiali che si stanno mostrando così efficaci a scrivere riassunti e traduzioni sapranno scrivere anche romanzi?

Poesia digitale

C’è chi sostiene di sì. Già oggi alcuni modelli linguistici sono in grado di produrre testi sorprendentemente coerenti e scorrevoli, a tratti accattivanti, persino comici o drammatici. Sono abilissimi a imitare ogni specifico stile d’autore, a inventare filastrocche o poesie con rime ardite. Scrivi una lettera di reclamo nello stile di Cormac McCarthy. Scrivi un sonetto in lode dei moduli F24.

Con un po’ di fortuna (sono sistemi probabilistici) entrambe queste istruzioni produrrebbero testi molto divertenti; magari più divertenti e creativi di quelli che potrebbero produrre molti scrittori. Questo sembra significare che sanno scrivere meglio di loro.

Basta andare un po’ più in profondità perché questa apparenza cominci a incrinarsi. I sonetti spesso hanno errori di rime, i componimenti a tema vanno volentieri fuori tema: queste sono limitazioni negate alla natura probabilistica del sistema, ed è verosimile che saranno risolte col tempo. Allo stesso modo, attualmente le Ia non possono “tenere a mente” più di un paio di pagine per volta, il che impedisce di produrre testi più lunghi dotati di coerenza e sviluppo interno. Ma anche qui si tratta di limiti tecnici; superarli sarà complicato e costosissimo (già ora questi sistemi usano quantità spropositate di energia), ma è possibile.

Codici

Ma i due esempi che ho fatto, come i molti che emergono quando si parla di questi temi, sono accomunati da una cosa: si tratta di testi caratterizzati da vincoli formali estremamente rigidi. Uno stile o una forma metrica sono insiemi di regole, ognuno accompagnato – nella nostra tradizione letteraria – da migliaia di esemplificazioni. E imparare a replicare delle esemplificazioni senza aver accesso a una lista esplicita di regole è proprio ciò che le intelligenze artificiali sanno fare: più che “intelligenze”, in senso stretto, sono macchine che, a partire da una serie di esempi, ne producono un altro probabile. Nei vincoli formali ci sguazzano.

Certo, si potrebbe dire: ma anche i romanzi sono insiemi di regole con migliaia di esempi, solo che si tratta di regole più numerose e complesse, esempi lunghissimi. E in effetti, già ora, alcuni sistemi di intelligenza artificiale sono utilizzati da autori di libri commerciali per generare trame: Dammi la sinossi di un giallo ambientato in un villaggio nella brughiera inglese. Scrivi il riassunto della storia di un liceale magrolino che scopre di avere dei superpoteri.

Pure in casi come questi i risultati potrebbero sembrare buoni, con un po’ di fortuna: si tratta, e non è una coincidenza, di generi estremamente codificati. Si tratta, soprattutto, di generi costitutivamente prevedibili. Sappiamo come proseguiranno quelle storie: ci saranno degli indiziati, ognuno con un alibi e una casa coi cavalli, e un’indagine che intorbiderà le acque. Il ragazzino rifiuterà, poi esplorerà i propri poteri, sino a scontrarsi con un mostro o uno scienziato malvagio. Questa banalità non è una limitazione, ma fa parte del ruolo culturale di certi libri e film, la ragione per cui li amiamo – sono rassicuranti, come le canzoni con melodia e ritornello. A opere simili chiediamo di intrattenerci, di farci sognare o perdere tempo, ma non di illuminare per noi un aspetto di cosa significa vivere in questo mondo. Difficilmente ci ripenseremo chiedendoci quali libri ci hanno cambiato la vita.

Ma certo, anche in questo caso, possiamo dire che quelli che chiamiamo “libri che ci hanno cambiato la vita” sono solo testi che seguono regole più complesse sia di quelle di un sonetto che di quelle di una storia di detective; regole sfumate, ambigue e contraddittorie, regole che nessuno ha mai colto esplicitamente ma che intuiscono in modo oscuro quelli che chiamiamo spiriti artistici. Non possiamo escludere che in un futuro un’iterazione più raffinata dei sistemi di oggi sia in grado di coglierle, quelle regole, e, partendo dagli esempi di letteratura che le forniremo, produrne altri. Sarebbero letteratura?

La risposta di Borges

Come a ogni domanda di filosofia della letteratura, ci ha già pensato Jorge Luis Borges. Nel famoso racconto La biblioteca di Babele, Borges ha immaginato un archivio di tutti i volumi possibili: tutte le combinazioni di caratteri e spazi, tutte le righe, tutte le pagine.

In una biblioteca del genere, scrive Borges, ci sarebbe «la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione del catalogo falso, l’evangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue», oltre ovviamente a ogni loro variante con minime differenze di ortografia e punteggiatura. La combinatoria che genera quei libri produce letteratura?

Non proprio: produce combinazioni. Nella misura in cui tali combinazioni esistono nello spazio logico del possibile, sono prive di un senso intrinseco: se oggi esistesse la biblioteca di Babele (che avrebbe più volumi che atomi l’universo), conterrebbe anche ogni libro in ogni lingua ancora non inventata. Ma se avessimo in mano un libro del genere, non potremmo ritenerlo sensato nel momento in cui il metodo per definire quel senso non esiste ancora. Quindi un libro del genere diverrebbe letteratura? Certo: quando ne sarà codificata la lingua, quando qualcuno potrà aprirlo e leggerlo. Qui appare qualcosa: a renderlo letteratura non sarebbe la combinatoria che lo ha generato, ma l’esistenza di una persona in grado di leggerlo. Non a caso sono i metafisici bibliotecari che, nel racconto di Borges, vagano intere esistenze fra gli scaffali in cerca di un volume che abbia anche solo un rigo, un sintagma sensato in quella Babele.

Il senso

E di colpo la questione si mostra da un’altra prospettiva: la creazione di senso non è opera di chi scrive, ma di chi legge. Le intelligenze artificiali che scrivono non fanno che offrirci metodi per cercare con precisione sempre crescente, in base a regole sempre più raffinate, fra i quasi infiniti volumi della biblioteca di Babele. Ma a scegliere quei volumi, a leggerli e dargli un senso dovremo essere noi. È fuor di dubbio che, lasciando abbastanza tempo a un sistema abbastanza complesso, questo sarà in grado di generare migliaia di romanzi, alcuni dei quali avranno qualcosa di profondo da dire sulla nostra vita, una rilevanza umana. (Lo stesso, d’altronde, si dice delle scimmie). Ma la avranno solo perché ce la vedremo noi, perché vivremo una vita che ritroveremo in quello specifico volume della biblioteca. La turbolenza atmosferica non è un generatore intelligente di facce e sagome di animali, eppure nelle nuvole ce ne vediamo di continuo.

Chiedersi se un’intelligenza artificiale può fare letteratura è solo un modo nuovo di chiederci cosa è, di preciso, la letteratura. Ce lo siamo sempre chiesti. Il paradosso al fondo de La biblioteca di Babele nasce dal fatto che la letteratura ci si presenta sotto forma di libri, cioè di combinazioni di parole (o di caratteri, o di pixel). Ma in ultima analisi il racconto di Borges non parla dei libri, bensì dei bibliotecari che dedicano la propria vita a cercarli. Perché una combinazione di parole (generata dal Dio di Borges o da una macchina probabilistica) diventi letteratura è necessario che faccia qualcosa per qualcuno, che qualcuno la usi per sognare.

E qui forse arriva la risposta alla nostra domanda. I protagonisti del racconto di Borges erano, chiaramente, metafora degli scrittori, che vagano in cerca di un brandello di senso nel labirinto di tutte le parole possibili. Eppure la loro attività non consisteva nello scrivere, ma nel leggere. Un lontano discendente degli attuali sistemi di intelligenza artificiale potrà – se istruito in modo debito, con la giusta dose di fortuna – trovare una qualunque combinazione di parole, ma non avrà creato letteratura. Ciò che crea la letteratura è chi la legge, e quelli siamo noi.

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