«Ho visto la fine, e non mi è piaciuta», dice un giovane cowboy in fuga verso il fiume oltre il quale pensa ci possa essere un po’ di riposto in Cavalli selvaggi. Negli ultimi anni della sua vita, Cormac McCarthy sembra averla contemplata a lungo, la fine. Chissà se nemmeno a lui è piaciuta. Chissà se gli ha fatto paura.

Pare che ne abbia parlato con coloro che riteneva, probabilmente a ragione, le migliori menti che avesse a portata di mano. Erano fisici, soprattutto, e filosofi. Frequentava le aule delle università, sembrava che volesse cercare di comprendere meglio i meccanismi alla base delle vite degli uomini, gli equilibri che regolano il mondo.

Forse, dopo averne raccontato l’apparenza, sentiva che il suo ultimo necessario sforzo creativo doveva essere dedicato allo studio delle dinamiche che ancora tengono in moto un’umanità che più che mai doveva sembrargli disperata.

Una torcia nella nebbia

Quando nel 1974 in Figlio di dio – il suo terzo romanzo dopo Il guardiano del frutteto, del 1965, e Il buio fuori, del 1968 – aveva dipinto la vorticosa discesa nella pazzia di Lester Ballad, rispedendolo a cercare la scintilla della sua appartenenza al genere umano nelle caverne cariate degli Appalachi, aveva fissato per sempre la sua visione del mondo, oltre a gettare le fondamenta per una ricerca linguistica in evoluzione costante per tutta la durata della sua carriera.

C’era un che di malinconico e speranzoso nel modo in cui McCarthy vedeva il suo intorno; come chi perso nella nebbia, quasi allo stremo delle proprie capacità e del tutto privo di ottimismo, per farsi forza cerca di immaginarsi cosa troverà quando ne uscirà. Chiedere una spiegazione alla scienza è stato come dotare quel viandante di una torcia potente, in modo che, anche se non lo avesse aiutato a trovare l’uscita, potesse almeno dargli una mano a farsi un’idea migliore riguardo a ciò in cui era immerso.

Conoscere il proprio destino, può essere utile per accettarlo.

Serpenti nel deserto

Prima di provare a far luce sugli ingranaggi, McCarthy aveva studiato gli effetti del trascinarsi degli uomini sulla terra: era affascinato dal male e dalla pulsione verso di esso. Lo si legge tra le avventure picaresche del Kid, protagonista di Meridiano di sangue ­– del 1985, ma cominciato nel 1970 e abbandonato per anni in presa alla frustrazione che ciclicamente affliggeva l’autore – e nella sua passione per i guai e per la violenza ingiustificata. Nel suo Tennessee, pregno di un fluido grumoso di fuorilegge e piantaguai.

C’è una storia che Elmore Leonard ha raccontato diverse volte in varie versioni: un vecchio uomo di legge sta attraversando il deserto e, benché sia stanco e spossato, ogni volta che vede un serpente impiega tutte le forze che può per sopraffarlo e ucciderlo. Non si ferma mai per guardare un fiore, benché siano rarissimi, e non abbandona mai il suo sentiero, nemmeno per cercare da bere.

Ma quando incontra un serpente o quando ne vede uno in lontananza, allora la sua unica missione diventa quella di avere la meglio. Così compie continue deviazioni e si attarda in soste apparentemente inutili. Uccidere i serpenti diventa un proposito più importante della sua stessa sopravvivenza. Quando un giorno gli viene chiesto perché perda così tanto tempo e investa così tanta energia per i serpenti ma non si goda mai la vista di un fiore o un sorso d’acqua da una fonte, l’uomo di legge risponde: «I fiori e l’acqua non hanno bisogno di me».

Così, con la stessa spietata risolutezza che nel film del 2015 Slow West, diretto da John McLean, fa dire all’amata Rose Ross di fronte al morente Jay Cavendish che l’ha inseguita per tutto il selvaggio ovest nel corso di una estenuante e dolorosa ricerca e che per amore suo è stato colpito dritto nel petto, «Il suo cuore era nel posto sbagliato», McCarthy ha passato la sua esistenza a sterminare serpenti nel deserto della sua ispirazione. La sua ricerca letteraria è stata una continua deviazione, un costante svoltare e prendere strade che lo portassero lontano dalla propria storia personale.

Se in Suttree, pubblicato nel 1979, se ne intravedeva una parte, sempre imperniata su quella amara ricerca attorno all’humus nel quale affondano le radici del male, poi la vita vera, quella che stava alle spalle della ruvida immaginazione, è tornata un riflesso sbiadito di una visione cruda dell’esistenza, diluita in continue procrastinazioni, romanzi cominciati e dimenticati, poi ripresi, bistrattati, gettati via, recuperati, finiti solo parzialmente e con grande fatica.

Storie senza briglie

In una delle rare interviste mai concesse in tempi recenti, ha detto: «La scrittura viene dal subconscio e l’ultima cosa al mondo che voglio fare è pensarci». Perché fermarsi a riflette, a volte, è più doloroso che lasciare scorrere un flusso incosciente. Quando dagli Appalachi, che ha abbandonato nel 1992 con la Trilogia della frontiera e poi Non è un paese per vecchi, del 2005, ha spostato la sua attenzione al West, la sua scrittura si era trasformata in un esercizio di automatica semplificazione.

«Non gli piacevano gli apostrofi», dice il critico John Jeremiah Sullivan, «Quindi non ne metteva». Lasciava correre la storia con le briglie a penzoloni senza preoccuparsi della forma, restituendo una voce assolutamente priva di confini linguistici; e tutte le sue vicende, a quel punto, avevano smesso di voltarsi indietro, verso il Tennessee dove era cresciuto o verso il nord nel quale era nato, e puntavano dritte al Rio Grande, al confine, a una libertà che tutti i suoi protagonisti proiettavano in un’altra America.

L’istinto di sopravvivenza

Nel West di Cormac McCarthy non ha mai trovato spazio l’epopea, la scatenata corsa della civiltà e la conquista della terra selvaggia; piuttosto un costante istinto di sopravvivenza nel corso del noioso succedersi degli eventi. «I suoi cowboy fanno la spesa al supermercato», dice di nuovo Sullivan, «Mentre cavalcano verso il tramonto del sud».

Se John Ford sosteneva che gran parte dello spettacolo del West non sta nella trama ma nello sfondo, McCarthy ha riportato il fuoco sui sentimenti, sulla pulsione che ha mosso uomini e donne a colonizzare deserti e montagne impervie in un atto d’amore e di rinuncia al male, seguendo idealmente il sentiero lasciato tracciato da Willa Cather nelle sue storie della frontiera.

La strada, del 2006, ha rappresentato l’estremizzazione del concetto: questo faticoso incedere verso una libertà più sognata che reale in un mondo senza più speranze, che ormai occupava tutta l’immaginazione dello scrittore. Senza più sfondi ricordati o elaborati, senza più niente se non l’intima consapevolezza dei protagonisti.

Il lascito 

Di lì in poi, un lungo silenzio, rotto solamente nel 2023 con la pubblicazione di Il passeggero e Stella Maris, una sorta di chiusura in minore che tornava timidamente sui passi dell’autobiografia ma che ha denunciato tutta la spossatezza dell’autore e la sua necessità di capire ancora meglio cosa ci fosse dietro all’esistenza; interrogare la scienza, trovare risposte oggettive e abbandonare, definitivamente e una volta per tutte, l’interpretazione soggettiva, foriera di frustrazione e inimmaginabile fatica.

In un articolo comparso sulla rivista Nature nel 2019, in cui dispensava consigli per chi volesse scrivere di scienza, McCarthy sosteneva che alla base della divulgazione ci sia la ricerca, ma che alla base della ricerca ci sia la fantasia. Solo immaginando uno scenario possibile si accende la miccia della curiosità che spinge alla verifica. E questo, più di qualsiasi altro ragionamento, è ciò che meglio sintetizza una carriera letteraria grandiosa, essenziale e vibrante come la sua.

Ora in molti si interrogheranno sul suo lascito e proveranno a incoronarne gli eredi. Qualcuno indicherà Philipp Meyer, qualcuno Norman Lock, qualcun altro Alma Katsu. La verità è che, sebbene esista un manipolo di buone penne in grado di emularlo, nessuno sarà mai maledetto da un senso dell’esistenza come quello di Cormac McCarthy, che di fronte alla fine ha voluto prendere un’altra deviazione.

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