Hanno assunto fattezze mitiche certe cene che si tenevano in presenza dei reali del Belgio nei lontani anni Venti del Novecento. Il mito, che persino congettura su chi sedesse accanto a chi e cosa si sussurrassero agli orecchi, accende oggi la nostra fantasia perché in quelle serate di pieno autunno si andava smantellando tutto ciò in cui l’umanità più credeva sull’universo.

Finanche gli smaniosi commensali si davano alla zuffa su quali tra gli strambi congegni messi a punto in quegli anni ambissero a rivoluzionare la nostra immagine del mondo. A Bruxelles, tra il 24 e il 28 ottobre 1927, nel più glorificato dei congressi Solvay, un manipolo di fisici celebrava le esequie di tutte le certezze consolidatesi dai tempi di Newton alla Belle Époque.

E sembra che, a partire da quegli anni di duelli rutilanti, gravidi di esperimenti intellettuali utili a smontare gli argomenti degli avversari e ipotizzare mondi alternativi, la fisica abbia ereditato il compito che un tempo era assegnato alla filosofia e alla letteratura: procurare vie di fuga da una vita povera di immaginazione e in cui il terreno lo si continua a trovare indefessamente sotto ai piedi.

E mentre filosofia e letteratura si ritrovano oggi a far sociologia della vita quotidiana, intente come sono a ricalcare tutto quanto già sappiamo – per confermarlo o criticarlo – la fisica fa suo giocoforza il mestiere di creatrice di concetti inediti.

Le due squadre

Proprio nel succitato congresso si affrontavano due squadre – che invero sarebbero di più, ma qui ahimè serve sintesi – con descrizioni dell’universo che d’allora in poi si sarebbero rivelate al contempo comprovate e tra loro incompatibili: la teoria della relatività e la meccanica quantistica. E ancora oggi in fisica ci si affatica per trovare una possibile conciliazione tra le due.

Tant’è che alcuni, prostrati da quasi un secolo di falliti tentativi, propongono che l’una o l’altra o ambedue vengano riposte negli archivi della storia – non tanto per le loro applicazioni, ancora oggi di sorprendente efficacia e utilità in ogni campo della vita, ma perché, al netto di questa loro sorprendente robustezza, si contraddicono su punti dirimenti della descrizione dell’universo.

La fisica relativistica immagina un continuum di eventi puntiformi che non obbediscono a quella sequenza temporale assoluta (il tempo che scorre allo stesso modo per tutti e per ciascuno) cui gli umani sono tanto abituati. Tutti gli eventi sono già cristallizzati in una posizione fissa, che ammette i prima e i poi solo in termini di relazione tra di loro, al punto che non esiste passato né presente né futuro, e soprattutto non ha senso alcuno parlare di evoluzione o cambiamento.

Non sa che farsene del gioco d’azzardo, perché ogni scommessa è già vinta o persa – e non è un caso che proprio Albert Einstein, padre della relatività, contro Niels Bohr, custode severo dell’ortodossia meccanico-quantistica, abbia rimarcato che Dio non è un biscazziere: «Il Grande Vecchio non gioca a dadi».

Questo perché Einstein aveva a cuore un’idea della fisica come descrizione quanto più fedele dell’universo, capace di previsioni accuratissime, la cui aspirazione è saper definire ogni dettaglio.

La meccanica quantistica offre una descrizione per larga parte opposta. Il suo mondo è discreto e non continuo, vale a dire composto di particelle separate le une dalle altre. Ma quel che è peggio è che la probabilità è parte integrante e irrinunciabile della teoria.

L’idea di fondo, che trova sintesi in principi iconici come la complementarità, la dualità onda-particella e l’indeterminazione, è che le proprietà dei fenomeni fisici, come la posizione o la quantità di moto (data dal prodotto della massa di un sistema per la sua velocità), non possano essere osservate o misurate al contempo. Così, ad esempio, quando osserviamo un elettrone, lo vediamo in posizione fissa come si trattasse di una particella isolata, ma quando lo stesso elettrone si trova in movimento, a noi appare come fosse un’onda, di cui possiamo determinare non la posizione, ma solo la velocità.

E la storia, agli orecchi di Einstein, minacciava di piegare sul raccapriccio quando Werner Heisenberg, temerario sovvertitore, insisteva che le leggi della natura non vanno considerate come immutabili e assolute, perché piuttosto servono quali affidabili prescrizioni per fare un buon uso degli strumenti teorici e sperimentali.

Di contro all’idea di una descrizione del mondo da parte di un qualcuno che osserva e scrive sul taccuino, la fisica dei quanti comporta sempre un’azione che modifica quanto si descrive. L’osservazione, pertanto, non concerne un fenomeno isolato, ma un’interazione tra due sistemi: l’osservatore e l’osservato.

Comprendere

Cento anni di travaglio non si possono condensare in poche righe. Basterà in questa sede dare una qualche ragione di quanto si asseriva in apertura. Dalla grande spaccatura degli anni Venti, in tutti i vasti rami della fisica, si è cercato di ricomporre oppure superare le due grandi teorie, benché i problemi nella sostanza siano gli stessi.

E quello che ne fa le spese, come c’era d’aspettarsi, è la nostra immagine del mondo, che ancora oggi si rintana pavida in quelle nozioni consolidate di spazio e tempo, quantunque smentite da più di un secolo – forse perché nelle scuole superiori si apprende una fisica che è utile, certo, ma da sé sola poteva andar bene a fine Ottocento.

E la cosa più interessante è che, almeno alcuni tra i nuovi facitori d’universo s’incoronano tedofori della filosofia classica ed eredi dei grandi metafisici. Si pensi a Julian Barbour e Lee Smolin, due protagonisti degli ultimi decenni, visionari dichiarati, che sugli stessi problemi discussi da Einstein e Bohr raggiungono posizioni opposte e parimenti avvincenti a partire dalla forza anzitempo della filosofia di Gottfried Wilhelm von Leibniz, che già tre secoli e più fa negava con recisione e sulfurea ironia le idee di spazio e tempo propugnate da Isaac Newton.

Barbour e Smolin abbracciano posizioni opposte su spazio e tempo. Per il primo, tutto quanto esiste a livello fondamentale è un insieme di punti-particella la cui reciproca distanza definisce le proprietà geometriche dello spazio. La relazione tra questi punti è come una vasta collezione di istantanee, ognuna delle quali corrisponde a una configurazione dell’universo, quale specificazione completa delle mutue distanze tra detti punti. Il tempo che noi umani percepiamo non è che un’illusione: si tratta di discrasie, sia pur minime, che sussistono tra le innumerevoli configurazioni e che danno l’idea che qualcosa scorra e muti.

Smolin ritiene all’opposto che esistano solo eventi temporali tra loro legati nel senso di causa ed effetto: il prima è la causa del poi. Illusorio, dunque, è lo spazio, perché l’universo è una rete dinamica di nodi interconnessi, un po’ come il web o il GSM. L’universo va studiato come una rete di eventi disposti su un grafo, legati da relazioni di prossimità e distanza temporali.

Insomma, che noi si debba cestinare l’agenda oppure rinunciare a cambiare casa, sia con Barbour sia con Smolin il nostro mondo è totalmente da ripensare. Perché l’ipotesi arditissima – ardita solo come quelle di certi metafisici d’un tempo – è che una più accurata comprensione dell’universo ci dia indicazioni per una migliore conduzione della vita. Per questo, Barbour e Smolin sono tra gli eredi di quei grandi primo-novecentardi che della fisica non hanno fatto solo scienza massima della natura, ma luogo di coltivazione di quei processi che James Hillman definisce “immaginali”.

Quei processi che non attivano soltanto una funzione del pensiero, ma ci scavano in quella zona tra conscio e inconscio in cui s’incontrano gli archetipi faccia a faccia e si produce un sensibile affatto nuovo – a tratti un po’ schizoide, ma di quelli che garantiscono lo stesso piacere intellettuale misto a sorpresa e spaesamento tipico di E. T. A. Hoffmann o di Rodolfo Wilcock, benemeriti anch’essi.

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