Nessun’altra città è così piena di vuoto. Ai margini del centro urbano di Berlino, a pochi minuti di metropolitana dalla torre di Alexanderplatz, la città si spalanca nel nulla: l’aeroporto di Tempelhof, dismesso nel 2008 e convertiti in un illogico parco senza qualità. Quasi niente alberi, niente colline, niente cascatelle o rocce romantiche a suggerire una natura violenta. Quasi niente e basta, in realtà: solo un chiosco di bevande e le colossali piste di atterraggio che tagliano ortogonalmente il manto erboso, a volte con

ancora le scritte di segnalazione per il decollo.

Quattro chilometri

È grande quattro chilometri quadrati, una misura astratta che non suggerisce niente. In concreto: quanto il centro storico di Bologna, due volte il Principato di Monaco, poco più di Panarea. Oppure: per attraversarlo a piedi occorre camminare per mezz’ora, sempre dritti, a passo spedito.

Oppure: chi osserva il tramonto dai balconi che affacciano sul lato di Neukölln vede il sole sparire nello stesso cielo gombro che vedrebbe un navigante, il riverbero sull’asfalto delle piste d’atterraggio simile a quello del mare, i caseggiati all’orizzonte sottili e sfumati come la cresta di un’onda lontana.

In una giornata di sole il vuoto si popola. Ci sono famiglie e gruppi di amici che si ritrovano a grigliare; ciclisti e pattinatori che sfrecciano lungo la bretella perimetrale; bivacchi di ragazze e ragazzi trascinatisi qui dopo un afterparty, i volti sbaffati di glitter, che dormicchiano sui teli da picnic preparati già la sera prima e lasciati al guardaroba dei club insieme al cambio di vestiti senza borchie.

Ci sono i volontari che gestiscono un orto collettivo in un dedalo di catapecchie di legno recuperato; ci sono quelli che giocano a racchettoni, a volano; ci sono gli skater che si allenano in un settore specifico della pista sud e – più avanti, a ovest, dove il vento incanalato dalla tangenziale vira e spazza di taglio il parco – quelli che fanno acrobazie appesi agli aquiloni, spiccando balzi di vari metri e contorcendosi a mezz’aria come pesci volanti.

Ci sono gli spacciatori serbi convocabili all’istante tramite un’app, e i proprietari di cani, e quelli che ancora a giornata inoltrata insistono a ballare trance attorno a un sound system portato in bici; ci sono, a volte, i vasti gruppi di larper che si danno appuntamento con cotte di maglia e mazze chiodate di gommapiuma per inscenare battaglie medievali. Con la neve ci sono gli sciatori di fondo, e ovviamente i pupazzi e le palle per le guerre.

Per quanti siano, lo spazio non finisce mai. Anche nei momenti di maggior affollamento la spianata del vecchio aeroporto sembra sempre vuota, grande abbastanza da offrire a chiunque la libertà di fare ciò che vuole. Da questo punto di vista, è un’immagine efficace di un certo mito della città di Berlino: era quel vuoto, quel senso di libertà, che cercavano i ventenni e le ventenni di tutto l’occidente che a partire dagli anni Novanta si sono trasferiti qui.

Il momento

Cercavamo. Uno di loro ero io. Sono arrivato a Berlino nel 2009. Ci vivo ancora. Me ne sono andato, sono tornato. Nel corso del tempo ho avuto vari motivi per restare: più o meno validi, più o meno vulnerabili ai negoziati con la durezza dell’inverno e la nostalgia. Ma a quasi quindici anni di distanza faccio fatica a ricordare la singola ragione che mi ha convinto a trasferirmi qui, il processo che ha condotto a una decisione che nel bene o nel male ha determinato gran parte della mia vita da allora.

Ricordo l’attimo in cui l’ho presa ma non quelli precedenti, come nei sogni di cui riconosciamo l’irrealtà ritrovandoci in una stanza senza sapere come ci siamo arrivati.

L’attimo era questo: era una mattina dell’aprile del 2009 e sedevo in un bar vicino all’Oberbaumbrücke, il «ponte rosso» che collega i quartieri di Friedrichshain e Kreuzberg. Erano i primi giorni del disgelo, le verande dei caffè occupavano i marciapiedi, la gente affollava le strade, i monticelli di neve sporca si schiudevano al sole come capsule temporali, rivelando i relitti di cartone fradicio dei botti del capodanno passato. In quei giorni della primavera la città è animata da un’energia nervosa, la frenesia di approfittare di ogni attimo di luce come fosse una concessione preziosa e sempre revocabile. Non lo sapevo ancora, ma in qualche modo ne percepivo subliminalmente l’intensità.

La trasferta

Ero a Berlino da qualche giorno, perché un teatro mi aveva commissionato un testo da mettere in scena, che mentre sedevo in quel bar sarebbe stato letto dalla compagnia – e poi unanimemente rifiutato. Non ci ero mai stato prima, e avevo deciso di trascorrere la mattina libera girando in città e godendomi la luce algida, il cielo terso, l’aria dura e secca come cristallo.

Lo spettacolo dei cosiddetti nomadi digitali – venti-trentenni seduti dietro a una schiera di portatili bianchi o argentati nei dehors dei caffè – risultava ancora esotico per chi, come me, aveva vissuto l’età adulta in Italia. L’idea che si potesse lavorare così – bevendo cappuccino, circondati dai propri simili, ascoltando musica in cuffia – aveva qualcosa di libero ed entusiasmante, somigliava al futuro. Dal ponte si vedeva la torre di Alexanderplatz in lontananza; i brutti graffiti su un tratto di Muro conservato come attrazione turistica si specchiavano più giù nell’acqua color fucile della Sprea.

Fortuna

Avevo ventiquattro anni. Avevo pubblicato un romanzo che aveva venduto poco ma ricevuto un paio di buone recensioni e un premio. Fra quello e un risarcimento incassato perché una Porsche mi aveva investito il giorno prima del mio orale di maturità, avevo in banca dodicimila euro. L’esperienza che avevo del mondo mi indicava che quello era un patrimonio inesauribile, sufficiente a non lavorare mai più. Ero molto, molto fortunato.

Avevo iniziato da poco un dottorato in filosofia a Milano. La ricerca che avevo scelto, e la disciplina in generale, mi avevano attratto moltissimo da studente ma cominciavano ad apparirmi remote. Bastava varcare la soglia del dipartimento perché le questioni che tanto mi appassionavano si trasformassero in esercizi di astrazione vana, un po’ come il titanico sforzo intellettuale di una partita a scacchi perde di ogni rilevanza al di fuori dei confini ristretti della scacchiera. Non credo di pensarla più così, ma la pensavo così allora.

Occasioni

E quindi in quella mattina dell’aprile del 2009, da un caffè con wi-fi sull’Oberbaumbrücke, mi sono collegato alla mia casella di posta universitaria e ho scoperto che un professore importante, sui cui libri avevo studiato, avrebbe sostenuto la mia richiesta di una borsa di perfezionamento negli Stati Uniti. Era un’ottima notizia. Avrei potuto vivere per un periodo a New York, avrei ricevuto uno stipendio più alto, avrei avuto qualche occasione in più di prolungare quell’inizio di carriera accademica in un progetto di vita.

Ricordo di aver composto la mail in cui ringraziavo e accettavo, ricordo di averla riscritta più volte aggiungendo onorifici e condizionali, ponderando il tu o il lei, ricordo di essermici soffermato a lungo, googlando il suo dipartimento e le sue ricerche e New York, pensando al futuro: quanto era vasto, quanto era lungo, in quanta parte era davvero mio. Il momento in cui ho deciso di trasferirmi a Berlino è stato quello. La mail non l’ho mandata mai.

Il testo è un estratto da La chiave di Berlino, Einaudi

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