Rosa ha i capelli corti, il collo incassato nelle spalle, i pugni contratti che agita in aria come se, nonostante gli orrori che sta confessando, volesse chiarire a chi la ascolta e ancor prima a sé stessa, che nessuna ammissione, nessun atto potrà sottrarle il ruolo di vittima. Rosa è commossa, racconta di aver afferrato la spranga e poi di aver massacrato tre donne e un bambino di due anni, «le mani sono andate» dice, rompendo in un pianto, «e ho cominciato a pestare, pestare». Ripete quel verbo infinito più volte, sembra una bambina, incerta su quale sia il confine tra verità e recita. Sul suo volto si alternano emozioni antagoniste – tristezza, rabbia, autocompiacimento, soddisfazione – ma tra queste non vi è la colpa. «Più picchiavo, più mi sentivo … sollevata».

D’improvviso, Rosa si dispera, colta di sorpresa dalle parole che ha appena pronunciato, come se soltanto adesso, ascoltandone il suono, riuscisse a comprendere il contenuto dei segni che le sue labbra hanno abbozzato senza attribuirgli alcun significato: ha timore di sé stessa, è sconvolta da quanto, per la prima volta, ha verbalizzato, dalla confessione capace di renderla il mostro che già da tempo i giornali e le televisioni dipingono.

Ecco, d’improvviso si riconosce in quel ritratto osceno, la signora delle pulizie schiva, silenziosa, “semianalfabeta” e dal fare puerile che un giorno qualsiasi di dicembre ha deciso di dare fuoco all’appartamento dove aveva appena lasciato tre cadaveri martorizzati. La minuta condomina che, a causa dei suoi insopportabili e ripetuti mal di testa, ha continuato a infierire su una quarta vittima che, agonizzante, tentava di fuggire strisciando sulle scale.

Carrarmati

Sono io, Rosa Bazzi, sono un’assassina, l’autrice di una delle più atroci stragi d’Italia, la donna amata da Olindo, l’amante desiderata da Azouz, sono forte, invincibile e mentre, a occhi chiusi, ripercorro gli eventi, senza sapere nemmeno se ricordo o se invento, il cuore si distende in uno straordinario sollievo: quello di chi non deve più lottare.

Infatti mi credono: non a tutto, solo alle questioni più importanti, quelle emerse nell’immediatezza dei fatti, sostenute dalle perizie, non ai dettagli che aggiungo in seguito, quando tento di costruire il mio fulgore, il mio fascino abbagliante.

Non mi credono, per esempio, quando racconto che sono stata stuprata da Azouz, rispettivamente marito, padre e genero delle mie prime tre vittime. Sembra che io stessa costituisca la prova della mia indesiderabilità: il mio corpo non è amabile per definizione, eppure sono amata e lo sarò ancora per molti anni. Glielo dico agli inquirenti e non mi importa che sia vero: Azouz era cotto di me, mi stava sempre dietro, dovunque andassi, pensava a me in galera, pensava a me nel letto di sua moglie, mi perseguitava.

Sorrido e piango mentre ricamo questa storia. Lui che mi sbatte sul divano, mi strappa i vestiti, osserva estasiato il mio corpo, minaccia di ammazzare Olindo – povero Olindo – perché sostiene che devo essere sua moglie a tutti i costi. Alla fine mi ringrazia, mai ha fatto l’amore così bene. Quando se ne va mi gratto più che posso con la spugna, voglio tirare via ogni traccia, prima che torni il mio Olindo.

I vicini di casa la chiamavano “il carrarmato”, a volte “isterichina”. Sua madre, invece, l’aveva chiamata Angela Rosa, un doppio nome che avrebbe voluto affidarle una promessa: buona, docile, obbediente, così Lisa Bazzi descrive la propria figlia, con la quale, però, ha smesso di parlare già da dieci anni. Dopo che ha sposato Olindo, dice, si è riempita di veleno. Ricorda di una sera in cui Rosa, che avrà avuto suppergiù undici anni, facendo ritorno da scuola venne stuprata per la strada. Si tratta di un episodio che è bene seppellire, sotto le nevrosi e le manie della figlia, sotto i silenzi e le rotture che da troppo tempo da lei la separano: «Cerco di non ricordare quel brutto episodio. Chi fu a violentare Angela Rosa non si è mai scoperto».

Nonostante tutto, però, Lisa non si sarebbe mai aspettata che Rosa si accanisse con un coltello sul volto di Raffaella e Paola, poi colpisse alla gola il piccolo Youssef, spargesse sui corpi e sulla casa del liquido infiammabile, appiccasse il fuoco, martoriasse un’altra vicina di casa e, come se niente fosse, si andasse a rifocillare in un fast food. Se lo sarebbe aspettato da suo genero, quell’uomo mastodontico e violento che sua figlia ha deciso malauguratamente di sposare, ma da Angela Rosa no. «Quella non è più mia figlia» dice, come se, con un ripudio, ci si potesse ripulire dei figli messi al mondo, «mi vedrà solo quando sarò sottoterra».

Non tutti lo trovano manesco Olindo, anzi, i vicini lo descrivono come un uomo “mansueto”, un “bonaccione”. Il mansueto netturbino che ha steso, a colpi di spranga, le proprie vicine di casa, trasformando in un inferno rovente quella che, per uno scherzo della sorte, era nota a tutti i condomini come la Palazzina del Ghiaccio. L’assassino che, facendo tesoro della propria professionalità, ha selezionato attentamente i cassonetti che sarebbero stati svuotati per primi dalla nettezza urbana: ha diviso in tre sacchi i vestiti insanguinati, i guanti e il resto del materiale usato per la mattanza e se ne è liberato, ma soltanto dopo essersi deterso nel fiume. Sono verità processuali che non soddisfano i difensori e gli innocentisti, sono i dettagli di una doppia confessione, reiterata e poi ritrattata, sono le gravi accuse che la madre di Olindo – nonostante anche lei non parli più da molto tempo con il proprio figlio – non riesce ad accettare: «Mio figlio è innocente», assicura, «è in carcere per colpa di Bazzi Rosa. Era lei che comandava. Tutte le vigliaccherie che poteva fare, le ha fatte. Se mi viene sotto Bazzi Rosa io l’ammazzo».

Innocentisti

La giustizia fa il suo corso, si inerpica di grado in grado sino ad arrivare a una certezza giuridicamente incontrovertibile, eppure è troppo umana, non soddisfa nessuno, né i giornalisti né il pubblico, né le madri né i padri, né gli avvocati né la Procura, non soddisfa neanche quello stesso Azouz che, a causa della strage, ha perso moglie e figlio, che da Rosa è stato accusato, ingiustamente, di stupro, e oggi grida la loro innocenza, si batte perché siano scagionati, insiste perché siano liberati i «poveretti che stanno pagando le loro ingenuità».

Nemmeno Azouz, marito ferito, padre dilaniato, guardando Olindo e Rosa – persi, goffi, impacciati, fuori dal mondo e dalla storia, mentre si sorridono e si tengono la mano davanti al giudice che elenca, disarmato, le loro atrocità – nemmeno Azouz può credere che dalla loro tremula volontà sia sgorgata tanta ferocia.

La via dell’innocenza si gonfia come l’acqua nell’alveo stretto di un fiume, prima un libro, poi un podcast, una delle più seguite trasmissioni di inchiesta, infine una moltitudine di testate e televisioni sostengono l’inattendibilità della prova regina: il signor Frigerio, unico sopravvissuto alla strage soltanto perché i killer lo credevano morto, avrebbe accusato Olindo affidandosi a una “falsa memoria”, rimestando i propri ricordi, tra amnesie e l’imbeccata di carabinieri di dubbia competenza e di certa turpitudine morale. Gli stessi inquirenti che, secondo gli innocentisti, avrebbero prodotto la seconda prova su cui si regge la condanna all’ergastolo della coppia di Erba: quella macchia di sangue trovata sul battitacco dell’automobile sarebbe stata portata lì da piedi distratti o da mani disoneste.

A nulla servono le lunghe pagine in cui, nella sentenza di condanna, si riportano le spiegazioni dei periti per i quali sarebbe stata impossibile una contaminazione: i carabinieri incaricati dell’ispezione dell’auto non erano ancora stati sulla scena del crimine (bruciata e diluita da acqua e fuoco) e, a ogni modo, la traccia repertata è di “alta qualità”, vicina al “sangue puro”, impossibile sia stata esposta a troppi passaggi o fattori degradanti. Il battibecco tra chi vuole liberare i “presunti innocenti” e chi butterebbe le chiavi delle loro celle, continua. La confessione è stata la messa in scena di coloro che, ingenuamente, speravano di poter barattare l’ammissione del delitto con una cella matrimoniale. Le confessioni, però, sono sovrapponibili e complementari, e piene di dettagli allora ancora ignoti alla stampa, dettagli che avrebbero potuto conoscere soltanto gli assassini: con quale automobile fosse arrivata, quel giorno, una delle vittime; la posizione esatta dei cadaveri, nonostante i media, sbagliando, avessero diffuso una posizione errata, poiché un corpo era stato spostato dai soccorritori nel tentativo disperato di sottrarlo alle fiamme; la presenza di alcuni cuscini sulla scena del crimine, utilizzati per soffocare le vittime che, in preda a una forza inimmaginabile, nonostante le sprangate e le coltellate, ancora non volevano morire; i punti esatti da cui è scaturito il fuoco, gli oggetti utilizzati per la combustione, soprattutto libri, come nei peggiori roghi della storia.

Dov’è la verità

Se in carcere vi fossero due innocenti? La domanda sconvolge ciascuno di noi, spettatori incoscienti e disinformati che permettiamo a cuore e ragione di ballare nell’incerto perimetro segnato dalla verità giuridica e da quella mediatica. Nella nostra coscienza rimbalza di continuo un interrogativo inconciliabile con qualunque risposta – qual è la “verità vera”? – poiché non esiste nessuna verità che non sia strettamente legata ai mezzi della conoscenza e alla opinabilità dell’opinione. La verità è un adeguamento dell’intelletto alla realtà, affermava Tommaso d’Aquino: si tratta sempre di una verità dell’uomo che osserva, non di una verità oggettiva, sprigionata dall’oggetto che viene osservato. Così, Rosa, Olindo e la strage di Erba diventano luoghi abitati da molteplici verità, opinioni sorrette più o meno da conoscenza: l’orco e la semianalfabeta, la lucida maniaca delle pulizie e il netturbino giuggiolone profondamente innamorato, la coppia di minus habens incastrata da inquirenti frettolosi di individuare i colpevoli; seguendo lo stesso copione, alla pista dei vicini di casa insofferenti e ripetutamente umiliati se ne affiancano altre due, quella dei fratelli razzisti e invidiosi e quella della vendetta della ‘ndrangheta.

Un sostituto procuratore generale arriva a proporre la riapertura del processo per la strage di Erba dopo sedici anni dai fatti, accusando i carabinieri di manipolazione e falsità in atti. La procuratrice generale di Milano dichiara, però, l’istanza inammissibile – perché proviene da un soggetto non legittimato a proporla – e anche infondata, a causa dell’assenza di nuove prove decisive per una revisione del caso. Nonostante la guerra tra procuratori, la richiesta viene trasmessa comunque alla Corte d’Appello di Brescia, cui spetta, ora, l’ultima parola. Mentre il pubblico, diviso tra innocentisti e colpevolisti, aspetta, palpitante, il verdetto della corte bresciana, un’altra Procura generale, questa volta della Corte di Cassazione, avvia un procedimento disciplinare contro il primo procuratore, contestandogli di aver violato i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio.

Colpa e perdono

Cosa resta al di là dell’areopago abitato dalla giustizia degli uomini, dei media e degli dei? Cosa abita al di fuori del calderone delle opinioni e delle idee? Le parole di Olindo e Rosa, intercettate, scritte sulla Bibbia o nelle lettere “private” inviate dal carcere. Olindo che, dopo aver confessato l’atroce delitto, dice a Rosa di sentirsi bene: «Forse stiamo meglio adesso che prima…».

Lei è d’accordo: «Niente, sono contenta di aver fatto quello che abbiamo fatto. Tieni pulita la tua camera». Nessuna menzione delle pressioni subite, ma anzi, entrambi si profondono in complimenti verso i carabinieri che hanno raccolto le loro confessioni: «Guarda che non sono cattivi», afferma Rosa, «no, no, veramente io ho trovato delle brave persone…», poi Olindo annota sulla Bibbia un ringraziamento per il maresciallo, che «ha detto le cose come sono successe» e per l’aiuto che gli ha dato.

Nei mesi che precedono la ritrattazione, il cambio degli avvocati e della strategia difensiva, Olindo appunta pensieri contraddittori, di un uomo vicino al pentimento e di un assassino ancora pieno di livore. Ora, rivolto a Dio, scrive «Accogli nel tuo regno il piccolo Youssef a cui noi abbiamo tolto il tuo dono, la vita». Ora, invece, accusa la prima vittima, Raffaella, con penna rancorosa, attribuendole la colpa della propria colpa: «Stiamo scontando la nostra pena per causa tua e della tua famiglia… La nostra storia è scritta col sangue».

Nonostante la vittima sia già inequivocabilmente morta, Olindo la minaccia così: «La vendetta ha la memoria lunga. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Raffaella…». Continuando il colloquio con la donna che ha ucciso e bruciato, confondendo realtà e piani morali, pretendendo addirittura di offrire alla vittima gli abiti del carnefice e indossare, lui, quelli di Dio, le scrive: «Noi ti sentiamo, ti abbiamo perdonata, siamo pentiti anche se non completamente, un giorno ti perdoneremo con tutto l’amore dei nostri cuori…” Il delirio di onnipotenza continua in una lettera che Rosa e Olindo inviano a un religioso di loro conoscenza, pentimento e perdono sono parole equidistanti, equivalenti, entrambe spettano soltanto a loro: «Non ci siamo ancora resi conto di ciò che abbiamo fatto. Il perdono, il pentimento, si contrappongono all’odio e alla rabbia, alle umiliazioni subite in questi anni».

Accettazione

In realtà, Olindo e Rosa il perdono lo hanno già ricevuto, ma non sono stati capaci di accoglierlo. Carlo Castagna – marito di Paola Galli, padre di Raffaella e nonno del piccolo Youssef, tre delle quattro vittime della strage di Erba – alla vigilia del funerale dei suoi cari, accorda un incomprensibile perdono ai due assassini, indulgenza per la quale lui stesso non è stato mai perdonato dall’opinione pubblica. Da quel momento in poi, in alcuni contesti, non si parla più della “Strage di Erba”, ma del “Perdono di Erba” e, a chi gli chiede di giustificare quella intollerabile lezione di tolleranza, risponde: «Un cristiano perdona e basta».

Un giorno, in carcere, un detenuto sta parlando con il proprio dirimpettaio di un tema tanto alto quanto astratto, appunto, il perdono. Olindo si intrufola nella conversazione, vuole dire la sua, lui che, invece, può affermare qualcosa di concreto: il perdono – dice – non è solo una cosa che va concessa, ma deve essere anche accettata… Io l’ho ricevuto, ma non sono pronto ad accettarlo. Perché?, gli domanda il detenuto, incredulo. Olindo racconta delle angherie che ha subito dalle sue stesse vittime, delle umiliazioni, delle omissioni di chi – proprio il clemente Carlo Castagna – sapeva e avrebbe potuto evitare la strage. Altro che perdono e perdono – continua Olindo, ribollendo nella collera – «Dio lo ha punito, un uomo che si rifugia in chiesa, cattolico per interesse. Sapeva tutto e non ha fatto niente per evitare una strage annunciata».

Vi sono altri frammenti in cui Olindo restituisce a Dio i panni che per un momento gli ha tolto e invoca il perdono divino. Dio è l’unico al quale, nell’evoluzione del suo percorso interiore, può accettare di sottomettersi, il perdono umano non è contemplato, è privo di valore, poiché tutti gli uomini, assassini o meno, sono per definizione dei peccatori. Solo un’eccezione emerge dalle sue parole: l’amore assolve da ogni peccato. Così, sulla sua Bibbia logora, scrive: «Dinanzi a Dio pagheremo per i nostri peccati. Dinanzi agli uomini pagheremo per i loro. Noi uniti nel nostro amore pagheremo due volte. Questa è la mia, la nostra profezia. Olindo e Rosa uniti per l’infinito. E due volte saremo perdonati».

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