Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Nel corso degli interrogatori Buscetta ha sempre affermato che la “sua” Cosa nostra, come l’aveva conosciuta all’inizio della affiliazione, non esisteva più. Era diventata “la Cosa nostra” di Riina e Provenzano che non rispettava più le regole alle quali si erano da sempre attenuti gli “uomini d’onore” della vecchia mafia.

Collaborando, intendeva vendicarsi non solo di chi gli aveva ammazzato due figli, un fratello, un genero, un cognato e altri parenti per un totale di undici persone, ma anche di chi aveva sovvertito le regole che governavano la mafia di un tempo, la mafia di Bontate e Inzerillo, la “sua mafia”.

Ai suoi occhi, la Cosa nostra non era più quella in cui era entrato giovanissimo, per colpa soprattutto di Totò Riina. Era diventata la “cosa sua”. La “cosa di Totò Riina”.

Ad esempio, ricordò che per tre anni aveva condiviso la stessa cella con il responsabile dell’omicidio di un suo amico, comportandosi come se niente fosse, consapevole che, secondo le regole non scritte ma inviolabili di Cosa nostra, quell’uomo sarebbe stato ucciso al momento della sua uscita dal carcere. E così accadde.

Ricordò anche, con sofferenza e pur con orgoglio, come, torturato dalla polizia brasiliana, legato a un palo per ore sotto un sole cocente, torturato con le scosse elettriche, minacciato di morte, si fosse limitato a declinare le sue generalità.

La storia racconterà che Buscetta ebbe totale fiducia in Giovanni Falcone, non nello Stato. Ma in realtà quel giudice istruttore faceva parte, con gli altri uomini del pool, di una componente, sia pure minoritaria, delle istituzioni che voleva vederci chiaro sul perverso intreccio politico-mafioso-imprenditoriale, perché non tutto era stato ed era sempre e soltanto mafia.

Don Masino riteneva però che il tempo non fosse ancora maturo per aprire, con le sue rivelazioni, quel “vaso di Pandora” dove erano rimasti occultati segreti inconfessabili che, una volta svelati, non sarebbe stato più possibile celare, con gravi conseguenze sulla tenuta delle istituzioni. No, era più opportuno tacere, per il momento, in attesa che i tempi maturassero. Come in realtà avvenne.

Buscetta descrisse dettagliatamente l’organizzazione di Cosa nostra, raccontò la guerra di mafia di quegli anni che definì “non una guerra ma una caccia all’uomo”, fornì codici di interpretazione, svelò nomi di killer e mandanti di atroci omicidi.

Per noi del pool fu un salto quantico, da semplici artigiani diventammo dei professionisti, pur fedeli alla nostra linea per cui non potevamo prendere per oro colato tutte le affermazioni di un personaggio che, in definitiva, faceva parte delle cosche perdenti della guerra di mafia e aveva dichiaratamente in animo di vendicarsi dei suoi nemici giurati.

Così Falcone mise a dura prova gli inquirenti, disponendo oltre tremila riscontri alle dichiarazioni di Buscetta. Tutto il possibile andava verificato, occorreva che il “prodotto” della nostra fatica, l’ordinanza-sentenza nei confronti di 707 imputati, fosse sorretto da prove granitiche. Perché si affrontava una battaglia che il pool non poteva permettersi di perdere.

Eravamo coscienti che l’eventuale accoglimento da parte della Corte di Assise delle conclusioni alle quali eravamo pervenuti avrebbe provocato una grave crisi in Cosa nostra, incoraggiando l’arrivo di altri pentiti, invogliati a mettersi sotto l’ala protettrice dello Stato che aveva “vinto” la battaglia. Di contro, qualora le conclusioni del cosiddetto “sistema Buscetta” fossero state sconfessate da parte del collegio giudicante, ciò avrebbe tarpato ancora per molto tempo le ali alla risposta dello Stato.

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