Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


La tragica estate palermitana dell’85 continuava. Cosa nostra voleva vendicare la morte di Salvatore Marino e farsi “sentire” subito, ancora una volta, nel solo modo che conosceva, facendo “parlare” i kalashnikov.

Il 6 agosto il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia muoiono sotto una valanga di piombo.

Da giorni, per motivi di sicurezza, Cassarà non tornava a casa. Era un uomo stravolto, sfiduciato, distrutto dalla morte violenta del collega Montana e aveva bisogno di riposarsi almeno per qualche ora. L’attentato avvenne in via Croce Rossa, dove il vicequestore abitava. Non era stato imprudente, la sua linea telefonica non era controllata, ma probabilmente una “talpa” che si aggirava in Questura aveva avvisato il commando dei killer del suo rientro a casa.

Il capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini, collaboratore prezioso di Giovanni Falcone, ne ebbe la certezza anni più tardi con le rivelazioni di Angelo Siino, il “ministro” dei lavori pubblici di Cosa nostra. Ma anche il capitano Pellegrini era entrato nel mirino della mafia ed era sfuggito al piombo di due killer solo grazie alla sua prontezza di riflessi.

Una sera stava rientrando in auto da una riunione in Questura, quando, fermo a un semaforo, si accorse che alle sue spalle una moto di grossa cilindrata si avvicinava a grande velocità. A bordo due persone munite di casco.

Intuito il pericolo, Pellegrini, senza attendere che il semaforo desse via libera, accelerò improvvisamente, tagliando la strada alla moto prima che gli si affiancasse, per dirigersi a tutta velocità verso la vicina caserma Carini dei carabinieri. I killer, sorpresi dalla inattesa manovra, desistettero dal portare a termine la loro missione di morte.

Ma altri attentati erano in cantiere, secondo voci arrivate dal carcere che, in particolare, indicavano in Giovanni e Paolo i probabili, prossimi obiettivi. In realtà, qualcosa più di una voce era stato il messaggio, oscuro e allarmante, che alludeva a “qualcosa che si doveva fare” ‒ e di cui ero venuto a conoscenza in quanto delegato anche al visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti ‒ trasmesso a mezzo di cartolina postale da Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e “uomo d’onore” della famiglia di Corleone, a Salvatore Lipari, geometra dell’Anas, vicino ai “Corleonesi”.

Ad Antonino Caponnetto nel contempo era pervenuta una segnalazione, non c’erano dubbi sulla sua attendibilità, secondo cui, in base a un preciso programma, erano state decise le eliminazioni prima di Borsellino e poi di Falcone. Non c’era tempo da perdere.

A notte fonda, con i loro familiari, Giovanni e Paolo partirono da Palermo per Alghero con un aereo militare. Quindi vennero trasferiti a Porto Torres a bordo di mezzi blindati e infine, viaggiando su alcune motovedette, fatti sbarcare a Cala Reale, nell’isola dell’Asinara. Vennero ospitati in una casermetta di mattoni rossi, la foresteria di Cala d’Oliva.

Sulla parete esterna dell’edificio il 22 giugno 2012 sono state apposte, nel corso di una cerimonia, due targhe ricordo sulle quali sono incise altrettante frasi famose di Falcone e Borsellino. Io stesso, allora Presidente del Tribunale di Palermo, scelsi e suggerii quelle frasi agli organizzatori del Festival “Pensieri e Parole. Libri e film all’Asinara” che me ne avevano fatto richiesta, e presenziai alla posa insieme al collega Giuseppe Ayala.

Si è scritto da qualche parte che i colleghi sarebbero stati allontanati da Palermo per poter completare, in tutta sicurezza, la stesura dell’ordinanza-sentenza che sarebbe stata depositata solo l’8 novembre 1985.

In realtà Paolo e Giovanni non ebbero il tempo di portare con loro anche soltanto parte delle centinaia di faldoni contenenti gli atti processuali da consultare per continuare il lavoro. Lo scrisse Caponnetto e lo confermo, confortato anche dai ricordi del personale di cancelleria e dei colleghi Ayala e Di Lello, i quali raggiunsero sull’isola per un paio di giorni Falcone e Borsellino.

Giovanni e Paolo durante quella sorta di esilio non rimasero certo con le mani in mano, ma poterono dedicarsi esclusivamente a prendere appunti solo per i capitoli dell’ordinanza-sentenza ai quali stavano lavorando prima di essere “trasferiti” all’Asinara. Nessuno dei due aveva la benché minima intenzione di considerarsi in vacanza e di oziare mentre si lavorava a un provvedimento fondamentale come la monumentale ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 che concludeva, sia pure parzialmente, una intensa, frenetica, laboriosa attività processuale iniziata nel 1980.

Quando rientrarono a Palermo, sempre per ragioni di sicurezza, non poterono neppure mettere subito piede in ufficio e, in particolare, Falcone fu costretto per un breve periodo a soggiornare in un luogo protetto.

E mi sovviene una notazione di colore. Pur avendone ogni diritto, i colleghi non chiesero mai di essere rimborsati della somma di 415 mila lire da ciascuno versata allo Stato per il pernottamento e mantenimento nella casermetta, anche se, di tanto in tanto, commentavano il fatto con ironia. Borsellino faceva ricorso al suo sense of humor dicendo in siciliano stretto: «Giovanni, ’u vinu ni vippimu, ma ’u paammu». Ne abbiamo bevuto di vino, ma accidenti se lo abbiamo pagato caro.

Gli sforzi di Cosa nostra per impedire di portare a termine il nostro lavoro furono però inutili, la macchina era partita ed era una macchina poderosa.

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