Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


All’inizio del processo ci furono le solite schermaglie procedurali: molti avvocati che protestavano, imputati che si lamentavano e avanzavano le più svariate richieste nel tentativo di impedire il regolare svolgimento del processo, simulando pazzia, crisi epilettiche, inghiottendo chiodi, cucendosi la bocca o denudandosi in aula. Si arrivò persino a ricusare il Presidente della Corte con l’accusa di avere suggerito una risposta a Salvatore Contorno.

Ma il Presidente Giordano, con mano ferma e decisa, seppe destreggiarsi tra gli ostacoli e condusse felicemente in porto quel difficile, complesso e mastodontico processo.

Grazie a Giordano e Grasso il processo scivolò via.

Non mancò qualche colpo di teatro, senza alcun effetto.

Luciano Leggio, che rinunciò, dopo averne fatto istanza, a confrontarsi con Buscetta, un giorno chiese di parlare e, a sorpresa, iniziò a raccontare del golpe Borghese, nella preparazione del quale erano stati coinvolti anche “uomini d’onore”. Il boss però ignorava che Buscetta aveva già detto della vicenda a Falcone e anche a Caponnetto, presente il giorno dell’incontro su richiesta del collaboratore stesso. Così, quando Leggio iniziò a parlare, il pubblico ministero, che aveva in mano la copia dell’interrogatorio di Buscetta, lo fermò, e il boss vide così svanire l’effetto della sua deposizione, con la quale forse intendeva inviare messaggi a qualcuno.

Dal suo nascondiglio anche Riina non fu contento dell’improvvisata di Leggio, che infatti fu poi avvisato in carcere di tacere: basta esibizioni.

Ma il processo, quel processo, non poteva concludersi che con un altro colpo di scena.

Durante l’ultima udienza, Michele Greco “il Papa”, che era stato arrestato il 20 febbraio 1986, appena pochi giorni dopo l’inizio delle udienze, prese la parola e rivolgendosi alla Corte declamò: “Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che Nostro Signore disse a Mosè...”

Un augurio di pace che non gli impedì di ricevere una condanna all’ergastolo.

E sempre “il Papa” si era rivolto a me con un atteggiamento simile quando, alla fine di un interrogatorio, mi disse: “Signor giudice, se lei mi lascia libero non sbaglia”.

Risposi che, nel suo caso, preferivo sbagliare. Richieste che se arrivano da un boss mafioso di quel calibro non ti lasciano indifferente.

Tra i tanti aneddoti, ricordo anche che, mentre era in corso il Maxiprocesso, mi recai al carcere dell’Ucciardone per interrogare Salvatore Contorno. Venni visto da qualcuno che ‒ in vena di facezie, per non pensare male ‒ mise in giro la voce che ero andato a trovare “Totuccio” per fargli omaggio, per conto del pool, di un vassoio di cannoli!

Nel corso del processo, ma fuori dall’aula, si registrarono diversi eventi che scossero Palermo. In particolare l’omicidio del piccolo Claudio Domino e l’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia” pubblicato dal “Corriere della Sera”. Mentre le polemiche generate da quell’articolo meritano una trattazione a parte, ricordo qui l’omicidio perché ebbe un’importante risonanza proprio nell’aula bunker.

Palermo, 7 ottobre 1986, quartiere San Lorenzo. Claudio Domino, 11 anni, si trova in compagnia di due amici, quando viene richiamata la sua attenzione da un uomo a bordo di un motorino, che gli fa cenno di avvicinarsi. Il bambino acconsente ma il killer, appena Claudio gli è vicino, esplode a bruciapelo un colpo di pistola che raggiunge il bambino in piena fronte, uccidendolo.

Lo spietato e feroce delitto sconvolge una Palermo che, a quel tempo, segue il Maxiprocesso in corso a carico degli esponenti di Cosa nostra ma non lascia insensibile qualcuno di essi: Giovanni Bontate, fratello di Stefano (capo della “famiglia” di Santa Maria di Gesù), sceglie di rompere il silenzio affermando di comprendere il dolore dei genitori ma di rifiutare l’ipotesi che “un simile atto di barbarie ci possa sfiorare”, così implicitamente ammettendo l’esistenza e l’associazione a un’organizzazione mafiosa.

Il piccolo Claudio era figlio di uno dei titolari della ditta che gestiva il servizio di pulizia all’interno dell’aula bunker e le indagini susseguenti al delitto presero in considerazione diverse ipotesi sul movente di quel grave fatto di sangue che, tuttavia, rimane ancora irrisolto perché i responsabili non sono stati individuati e riconosciuti con sentenza.

Si è appreso da un mafioso “pentito” che Salvatore Riina per “vendicare” il piccolo Claudio avrebbe dato l’ordine di individuare e “scannare” i responsabili del delitto, evidentemente esecrabile anche agli occhi del capo di una delle più sanguinarie associazioni criminali.

Ma Claudio Domino è stato, di certo, l’ennesima vittima innocente della mafia che crudelmente ha stroncato la sua giovanissima vita, sottraendolo all’amore dei suoi genitori, i quali si sono fatti poi promotori di un progetto di crescita e tutela dei minori finalizzato a fare memoria del sacrificio del figlio e di altri 108 bambini, anche loro vittime innocenti della mafia.

È giusto e doveroso non dimenticare quell’azione efferata, disumana, del tutto estranea al nostro modo di concepire l’esistenza e, soprattutto, essa stessa negazione della cultura della vita.

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