Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Il nostro lavoro per qualche tempo venne ignorato da gran parte della città o peggio criticato, temuto, ostacolato. Era facile trovare qualcuno, imprenditore, commerciante, professionista che si lamentasse delle incursioni della Guardia di Finanza nelle banche e, soprattutto, di quel giudice, Falcone, un po’ troppo intraprendente.

La città guardava, non si schierava. Stava alla finestra in attesa di conoscere il vincitore.

Poi la collaborazione da “pentito” di Tommaso Buscetta e il blitz di San Michele attivarono un processo virtuoso. Buscetta era una figura particolare. Non era al comando di una “famiglia” ma era trattato lo stesso con grande rispetto. Era un capo e decise di parlare con Falcone che, forse, considerava una sorta di pari grado dall’altra parte della barricata.

Giovanni lo incontrò praticamente sempre da solo, verbalizzò a mano le sue dichiarazioni. Mentre lui parlava e l’inchiesta lievitava, c’era una Palermo che assisteva indifferente alla guerra di mafia. Nessuno sapeva ancora delle rivelazioni di Buscetta, tanto che, nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1984, partì il blitz di San Michele che portò in carcere oltre trecento persone senza che Cosa nostra avesse sentore di nulla. Il giorno dopo a Palazzo di Giustizia ci fu molta agitazione.

Da lì partì il momento d’oro del pool, se così possiamo dire, e dalle esigue disponibilità di uomini e mezzi alle quali ci eravamo abituati si passò a un largheggiare di risorse mai visto prima.

Il periodo tra settembre 1984 e maggio 1985 fu quello in cui il pool conseguì i primi positivi risultati.

Sentivamo e percepivamo con chiarezza che il clima attorno al nostro lavoro era cambiato. I colleghi mostravano sincero apprezzamento, molti chiedevano di entrare a fare parte del pool, volevano lavorare con noi. E l’attenzione e l’appoggio dello Stato ci incoraggiavano. Palermo era diventata una priorità per il nostro Ministero. Non era mai successo.

Anche il consenso dei palermitani era palpabile. “La gente fa il tifo per noi”, si spinse ad affermare Giovanni Falcone in un momento di entusiasmo, per come riferito poi da Paolo Borsellino in un suo cruciale intervento pubblico.

In realtà, Falcone era misurato nelle sue esternazioni, era diffidente, non contava troppo su quella improvvisa esplosione di vicinanza da parte della città. Infatti ci fu poco tempo per gioire. Quei pochi mesi passarono in fretta. Un nugolo di piombo ci fece ricordare, se mai ce lo fossimo dimenticati, che la guerra era ancora lunga e che altri morti avrebbero accompagnato il nostro cammino.

Mentre noi dovevamo fronteggiare attacchi che arrivavano da molte e differenti parti, la nostra “controparte” aveva un unico nemico: i giudici del pool e quel manipolo di poliziotti, carabinieri e uomini della guardia di finanza che ci collaborava.

Nell’immaginario collettivo è rimasta l’idea del pool, ma quando chiedi quanti giudici ne facessero parte senti dare cifre inverosimili che parlano anche di venti o trenta magistrati. Eravamo quattro, lo ribadisco, con Caponnetto che coordinava, e poi lievitammo a sei. Vista da lontano, Palermo sembrava una città dove il problema principale era la mafia. Poi arrivavi a Palazzo di Giustizia e vedevi che chi se ne occupava erano pochissimi magistrati. La maggioranza faceva tutt’altro.

Il terrorismo agiva soprattutto nel Nord del Paese e decine di magistrati con centinaia di uomini delle forze dell’ordine diedero la caccia alle Brigate rosse e alle altre sigle dell’epoca; in Sicilia, invece, occuparsi di mafia era una anomalia, una specializzazione nemmeno così qualificante. Numerose erano le obiezioni e le critiche al nostro lavoro. Giuristi, giornalisti, uomini politici a più riprese sostennero che la lotta alla mafia non è compito dei magistrati. “Il magistrato non lotta”, dicevano. E affermavano anche che, se questi – cioè noi del pool – fanno del contrasto a Cosa nostra uno degli obiettivi principali del loro lavoro, significa che non sono più affidabili, imparziali.

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