Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Scrivo e man mano i momenti leggeri riaffiorano.

Qualche volta succedeva che Giovanni si divertisse a “scoprire” cognomi siciliani da tradurre... in lingua italiana. Una mattina venne da me e mi chiese: “Leonardo, che fine ha fatto quell’imputato che si chiama Assaggialuva?”

Gli risposi che non ricordavo nessun imputato con quel cognome. E lui: “Possibile che non ti ricordi?” Insomma andammo avanti per un po’ fino a quando non ammise che l’imputato di cui parlava era Mangiaracina, che in italiano si tradurrebbe in “assaggia l’uva” perché la “racina” nel nostro dialetto è l’uva.

E poi devo assolutamente raccontare di una trasferta fatta insieme negli Stati Uniti e in Canada. Quella volta fu necessario che io mi fermassi a New York ancora un giorno per un ultimo atto istruttorio, mentre Giovanni mi avrebbe preceduto a Montreal, dove l’avrei raggiunto, per un altro atto istruttorio. Poiché avrei dovuto pagare il soggiorno nell’albergo con la carta di credito, che avevo però dimenticato a casa, pregai Giovanni di occuparsi, insieme al suo, anche del mio conto. Mal me ne incolse, perché al ritorno a Palermo Giovanni iniziò a stressarmi per avere il saldo del debito. Un po’ stupito gli dissi che la somma anticipata gli sarebbe stata addebitata dopo qualche tempo e, quindi, non c’era alcuna premura. Ma non ci fu nulla da fare. Serissimo, insisteva. Ricorse an- che al latino: “Bis dat qui cito dat”, “dà due volte chi dà presto”, finché non scoppiò in una grossa risata. Mi stava prendendo in giro.

Ci si scambiava spesso anche piccole gentilezze. Come quando, al ritorno da una trasferta all’estero, Giovanni mi portò in dono la riproduzione di un monaco tibetano della quale si impossessò subito mio figlio, suo grande “tifoso” e oggi anche lui magistrato. O dopo il passaggio alla Procura, quando Giovanni mi regalò due quadri tra quelli che adornavano la sua stanza nel “bunkerino”, e che conservo gelosamente. Ma ripensandoci, mi è sorto il sospetto, chissà perché, che si sia disfatto di quelli che gli piacevano meno!

Falcone era anche un collezionista di papere. Andava alla ricerca di nuovi esemplari a ogni viaggio e li cercava di un materiale sempre diverso. Aveva cominciato la collezione perché all’inizio della carriera aveva commesso un errore, “una papera” appunto, e da quel momento, per ricordarsi di non commetterne più, incominciò a volersene circondare.

Quando la professoressa Maria Falcone, Presidente della Fondazione intitolata al fratello, di cui sono consigliere, mi propose di assumere l’incarico di Segretario generale, le risposi, celiando, che avrei accettato a condizione che mi avesse regalato una delle tante papere di Giovanni. Ne ho scelta una in legno e ora la tengo nel mio studio come una cosa estremamente cara.

E mentre Giovanni accumulava papere, io collezionavo coppe.

Una volta Paolo Borsellino venne a trovarmi con il figlio Manfredi, all’epoca adolescente, in ufficio, dove avevo esposto in una bacheca i trofei vinti giocando a calcio. Restammo a conversare per un po’ e poi Paolo e il figlio lasciarono l’ufficio. Qualche giorno dopo Paolo tornò a trovarmi, bussò forte alla porta, dove “bussare” è un eufemismo perché stava quasi per buttarla a terra, e con la sua immancabile sigaretta all’angolo della bocca mi apostrofò in dialetto: “A vo’ sapere ’na cosa? Sabato scorso sarei subito tornato indietro e, se non c’era mio figlio, t’avissi ammazzato”. Sorpreso, gli chiesi cosa mai avessi fatto per meritare quelle sue parole minacciose, e Paolo chiarì: “Vuoi sapere cosa ha detto mio figlio Manfredi quando sono uscito dalla tua stanza? Ha detto: ‘Papà, hai visto quante coppe e medaglie ha ricevuto il tuo collega? Quello sì che è un giudice, non tu che non ne hai mai vinta una’”. Naturalmente ci facemmo una bella risata.

Le sigarette... Giovanni e Paolo fumavano tantissimo, soprattutto il secondo. Io invece non ho mai fumato in vita mia, eppure da una radiografia, effettuata per accertare eventuali segni di una bronchite, emerse addirittura che i miei bronchi erano “neri, come quelli dei fumatori”.

Insomma, ero rimasto vittima del fumo “passivo” accumulato nelle lunghe riunioni del lunedì e in altre occasioni. Ad esempio, anche quando gli davo un passaggio in macchina Paolo non rinunciava alla sua ennesima sigaretta e, a seconda che sedesse alla mia destra o alla mia sinistra, quando rientravo a casa mia moglie sentiva che la mia guancia destra o quella sinistra “odorava” di fumo.

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