DIl terrore – dice Benjamin Netanyahu – «è anche a Parigi, nelle periferie a venti minuti d’auto». Prova a portare l’Eliseo in guerra con lui, il premier israeliano, mentre parla al fianco di Emmanuel Macron, nel pomeriggio di martedì. Una cosa Netanyahu l’ha compresa bene: il rischio è che il conflitto in Medio Oriente faccia deflagrare anche tensioni interne alla Francia.

Il presidente francese è a sua volta consapevole che la guerra può avere effetti deflagranti su un tessuto sociale che in Francia è già lacerato. Il lungo ciclo di proteste sociali ha mostrato uno scollamento con la classe politica che Macron e il governo francese, invece di sanare, hanno preferito schivare, tra stratagemmi istituzionali e repressione.

Ma la consapevolezza ha spinto negli ultimi giorni il presidente francese – e la premier Élisabeth Borne che per sintonia politica è sua emanazione – a riequilibrare le posizioni riguardo al conflitto, aggiungendo alla solidarietà per Israele l’appello al diritto internazionale.

Poi, arrivato in Israele, questo martedì Macron ha forgiato il suo nuovo slogan: «Propongo ai partner internazionali una coalizione contro i gruppi terroristici che minacciano tutti noi. Come abbiamo fatto con l’Isis, va fatto con Hamas».

La spedizione mediorientale di Macron rappresenta una performance di equilibrismo su più fronti. C’è il versante diplomatico, c’è quello domestico; e sono intrecciati.

Un orizzonte politico

La missione macroniana è un unicum: se è vero che il suo viaggio in Israele è tardivo rispetto ad altri – dalla presidente della Commissione europea al cancelliere tedesco – l’Eliseo è pure il primo a contemplare nel carnet di incontri l’Autorità palestinese, dunque Abu Mazen.

Sarebbe un tentativo di agire da disinnesco di crisi, se non fosse che finora Macron in ciò ha fallito: pochi frangenti dopo le sue interlocuzioni col Cremlino, la Russia ha aggredito l’Ucraina; e che dire del viaggio in Cina, con tanto di bufera diplomatica sul volo di ritorno? Ora Macron riprova in Medio Oriente.

A Netanyahu porta in dote solidarietà e «lotta a Hamas», ma detta il suo perimetro: «Non senza regole. Non colpiamo i civili. Assicuriamo aiuti umanitari». Evitare di «aggiungere sangue a sangue» e soprattutto – questo il messaggio più importante di Macron – ricostruire una prospettiva politica: «Va accettato il diritto dei palestinesi a terra e stato. La lotta comune al terrorismo, il rispetto dei diritti umani e l’apertura di un orizzonte politico sono indissociabili».

Da Macron a Mélenchon

Anche dentro i confini francesi, «è come se il discorso politico si stesse riequilibrando», dice a Domani lo storico Dominique Vidal, la cui opera si concentra sul conflitto israelo-palestinese.

«Nelle prime due settimane sembrava regnasse la cecità, tra chi sosteneva i palestinesi senza denunciare i crimini di Hamas, e chi si è schierato con Israele senza far presente anche l’uccisione di civili palestinesi innocenti». Da lunedì «sia Borne che Macron hanno introdotto nel discorso la necessità di un orizzonte politico».

Intanto il Consiglio di stato ha contraddetto il divieto governativo di manifestazioni pro palestinesi, così domenica una fetta di sinistra, sindacati e società civile è scesa in piazza per evitare stragi di civili a Gaza. Mentre i macroniani riequilibrano le posizioni, a sinistra il conflitto esaspera divisioni già in atto.

A inizio mese i comunisti avevano boicottato l’unione di sinistra ecologista (Nupes), e a seguire hanno vacillato i socialisti. Ora che Mélenchon «ci ha messo troppo a condannare Hamas», la deflagrazione della Nupes si accelera. «Sia chiaro – dice Vidal – che il primo motivo di insofferenza degli altri è il tentativo di Mélenchon di egemonizzarli». Ma anche le contraddizioni interne sulla guerra non aiutano a restar compatti.

© Riproduzione riservata