Tutti uniti con l’Ucraina, sì, ma «senza mai prendere noi l’iniziativa di una escalation», ha detto questo venerdì Emmanuel Macron. Già, perché «così come è chiaro il nostro sostegno a Kiev, è ugualmente chiaro che non siamo in guerra con la Russia», ha scandito bene Olaf Scholz.

I due leader – il presidente francese, e il cancelliere tedesco che lo ha invitato a Berlino assieme al premier polacco – avevano da ricomporre il quadro di insieme dopo che a fine febbraio, al termine di una conferenza parigina di supporto a Kiev, l’Eliseo aveva contemplato la possibilità di un intervento diretto dei paesi europei sul terreno ucraino, per poi finire pubblicamente sconfessato da Berlino.

Tre protagonisti, tre famiglie politiche di provenienza e soprattutto tre livelli di lettura: l’incontro in stile “Weimar” di questo venerdì, che verrà rilanciato a inizio estate con un ulteriore incontro a Varsavia, va letto a strati. Non c’è in realtà solo la strategia comunicativa da coordinare sul versante della guerra, ma pure un compromesso fra i due azionisti di maggioranza dell’Unione europea, Francia e Germania, in vista di una architettura europea sempre più orientata alle spese per l’industria militare. Inoltre c’è l’orizzonte delle europee da definire; ci sono nomine da fare, e c’è Mario Draghi convitato di pietra.

Guerra e industria militare

Alla vigilia della sua trasferta tedesca, Emmanuel Macron era andato in tv a parlare del dossier ucraino. Il presidente francese prova a barcamenarsi tra due esigenze: una è quella di costruire una retorica di guerra, una «economia di guerra» come lui stesso la ha battezzata, e più in generale una Ue più disposta a indirizzare fondi pubblici verso i colossi della difesa, per gli interessi diretti dell’industria francese in materia. Al contempo, per l’Eliseo che in un passato recente non era certo il falco d’Europa, lo slittamento di discorso rischia di apparire contraddittorio, soprattutto se non è ben coordinato con l’alleato tedesco. Scholz, che da tempo si è detto pronto a sostenere l’Ucraina anche a fronte di un disimpegno statunitense, non è disposto, però, a parlare di coinvolgimenti diretti adesso.

Il primo livello di lettura dell’incontro nel formato Weimar sta appunto nel tentativo di riallineamento del duo francotedesco, coadiuvato dall'elemento terzo ovvero dal premier polacco. Come lui stesso ha fatto intendere, se c’è qualcosa su cui Donald Tusk è in sintonia con Andrzej Duda – il presidente della Repubblica che gli dà filo da torcere boicottandolo in nome degli ultraconservatori del Pis – è la relazione con Washington, dove non a caso i due si sono recati insieme questa settimana. «Un’Europa più forte è un partner migliore anche per gli Usa», ha detto da Berlino Tusk; intendeva che, a maggior ragione se il Congresso Usa o un avvento di Donald Trump dovessero implicare un disimpegno statunitense verso Kiev o verso l’Ue, irrobustire il complesso militare europeo farà buon gioco anche alla «relazione transatlantica».

Gli accordi sull’Ucraina – l’annuncio di Scholz su una coalizione di alleati per le armi a lunga gittata, o i piani condivisi dalla Commissione europea per coproduzioni congiunte di armi tra industria europea e ucraina – sono lo spunto per una intesa più ampia e strutturale su un’Ue orientata all’industria militare. Il pacchetto presentato a inizio marzo dalla Commissione europea punta proprio a rendere strutturali le soluzioni adottate sotto la veste emergenziale con la guerra in Ucraina.

Dopo un incontro dei ministri della Difesa a Ramstein, la prossima settimana ci sarà anche un vertice dei capi di stato e di governo europei nel quale questo tema emergerà in modo chiaro: il Consiglio di giovedì e venerdì prossimi avrà sul tavolo pure gli appalti per il settore della difesa. Non a caso Charles Michel, che del Consiglio europeo è il presidente, ha incontrato i rappresentanti dell’industria militare, poi Macron giovedì, e Scholz il giorno seguente.

L’orizzonte delle europee

Ma sarebbe fuorviante pensare che il cancelliere tedesco e il presidente francese abbiano da sbrogliar nodi solo in vista del Consiglio. Non è così: in realtà i due – anzi i tre, visto che dopo un lungo bilaterale si è aggiunto anche Tusk – hanno di che ragionare anche sulle europee, e su quel che ne seguirà. Mentre Michel è sempre più evanescente, c’è un convitato di pietra che a Berlino ha fatto sentire davvero la propria presenza, ed è Draghi.

Dopo essere stato incoronato Mister Competitività da von der Leyen a settembre, ha in mente di presentare un report sul tema a giugno. Ma già da tempo i lavori sulla competitività sono l’occasione per lui di dialogare coi governi e prospettare ambizioni. Anche su ciò, Parigi e Berlino dovevano riallinearsi. L’idea draghiana di imponenti investimenti pubblici per il settore produttivo, da sostenere a livello europeo, rappresenta per l’Eliseo un sollievo, mentre per la coalizione semaforo tedesca – vista la prospettiva di nuovo debito comune – è motivo di fibrillazione.

E poi, anche se sottovoce, si parla di Draghi anche per le nomine, e per la presidenza del Consiglio in particolare. Scholz, Macron e Tusk sono azionisti di peso delle tre famiglie politiche che in Ue finora si sono strette in coalizione: popolari (Tusk), socialisti (Scholz) e liberali (Macron). I due leader di Francia e Germania, entrambi con problemi interni e destre estreme in crescita, devono tenersi stretti se vogliono mantenere un’influenza sull’Europa del dopo giugno.

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