Dopo che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si è presentato alla riunione davanti ai suoi colleghi dell’eurozona per render conto del fatto che l’Italia tiene in ostaggio tutti sulla ratifica della riforma del Mes, il presidente dell’eurogruppo Paschal Donohoe se l’è cavata con una tautologia. «Assieme al ministro Giorgetti – ha risposto ai cronisti italiani che provavano a strappare a Bruxelles le risposte mancate di Roma – ci siamo impegnati a continuare a impegnarci». Il sottotesto è che se ne riparlerà davvero solo dopo le europee, quando la destra nostrana potrà esser più disinibita in materia. Per l’ennesima volta, il governo Meloni se la cava in Europa con l’unica strategia di cui è capace: la tattica pura. Piuttosto che indicare orizzonti, palazzo Chigi – e così via XX Settembre – si barcamena.

Nel frattempo, nel giro di ventiquattro ore, l’Italia si trova esibita come osservata speciale prima all’eurogruppo, poi all’Europarlamento. Basterebbe affiancare l’agenda delle istituzioni europee, per rendersi conto che la premier Giorgia Meloni – sempre pronta ad additare i critici o i giornalisti come “nemici della patria” – è la prima a creare imbarazzi all’Italia in sede europea. La settimana è iniziata con Giorgetti che ha dovuto render conto dello stop alla riforma Mes. Poi questo martedì in Europarlamento il caso Acca Larentia e «il riemergere del neofascismo» diventano oggetto di dibattito. Che si tratti di pragmatica o di dialettica – dai fallimenti sul patto di stabilità agli attacchi allo stato di diritto – il governo Meloni rischia di apparire in Ue proprio come la premier non voleva: «Sono venuta a dire che non siamo marziani», aveva promesso nella sua prima visita ufficiale a Bruxelles.

Eppure esiste sempre un’àncora di salvezza, una boa alla quale aggrapparsi. E anche questa settimana, come è già accaduto altre volte, quella boa per Meloni porta il nome di Ursula von der Leyen, la presidente di Commissione Ue che sta costruendosi la carriera post elezioni di giugno. I popolari guidati da Manfred Weber, e von der Leyen stessa, sono sempre pronti a fare gioco di sponda con la loro alleata de facto. Una visita frettolosa – oltre che organizzata in fretta e furia – questo mercoledì a Forlì, in Emilia Romagna, servirà alla premier a esibire una qualche conquista di facciata, e alla presidente di Commissione a tessere i fili che la legano al dopo europee. Nel caso specifico, premier e presidente annunceranno in conferenza stampa un rimaneggiamento dei fondi del Pnrr tale da far affluire risorse nelle aree alluvionate.

Questo è ormai uno schema usato e abusato da Meloni: è la fantomatica «flessibilità» dei fondi esistenti. Anche qui si vede il tratto distintivo della sua strategia politica in Ue: non è strategia, ma tattica; si tratta di rimaneggiare risorse già assegnate. Fallito il negoziato sugli aiuti di stato, si reindirizzano i fondi di coesione a favore delle imprese; fallita la riforma del patto di stabilità, si mette in scena il tira e molla sul Mes, e così via. A von der Leyen, come a Weber, costa poco sostenere la premier nella sua propaganda – migranti, gite a Tunisi e dintorni – visto che sulla sostanza – a cominciare dal patto di stabilità – contano sulla sua cedevolezza.

Il tira e molla sul Mes

«Così come ero felice del via libera di tutti gli altri, io mi rammarico – I regret – che il parlamento italiano non abbia ratificato la riforma», ha detto questo lunedì dopo l’eurogruppo Pierre Gramegna, direttore del Meccanismo di stabilità europea (il Mes, appunto). Il no di Roma è per Gramegna «una occasione persa per rendere l’eurozona più resiliente e per rafforzare l’unione bancaria». Visto che adesso «il trattato non può entrare in vigore» – ha messo in guardia – «ci saranno conseguenze sulle quali bisogna riflettere a cominciare dal fatto che avremo uno strumento in meno per proteggere i soldi dei contribuenti».

Il primo eurogruppo del 2024 avrebbe dovuto proiettarsi nel futuro, tra raccomandazioni di politica economica e scambi di opinioni sulla competitività; ma è stato anche un ritorno al passato, perché l’ultimo punto da trattare riguardava l’«occasione persa» del 2023. Come da programma, «l’eurogruppo ha fatto il punto sullo stato dei lavori per quel che riguarda la ratifica dell’accordo che modifica il trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità»; che è un altro modo per dire: a Giorgetti è stato chiesto conto dello stop italiano.

Al di là delle increspature di superficie – tra esponenti politici europei che si indignano e contraddizioni giorgettiane – in realtà anche su questo punto l’esecutivo Meloni conta sulla «flessibilità» ovvero sul barcamenarsi. Dopo che l’area centrista dell’opposizione ha innescato un voto d’aula sul Mes, la destra di governo si è assicurata che per sei mesi quello stesso dossier non sia di nuovo sottoposto a voto. Nel frattempo, verrà in questo modo scavalcato lo spartiacque del voto di giugno senza che né Fratelli d’Italia né la Lega debbano render conto ai loro elettori di un via libera al Mes tanto scudisciato in passato. Dopodiché verrà apparecchiata qualche sistematina di facciata, che consenta all’Italia – e con lei all’eurozona – di chiudere finalmente il capitolo.

Quando Donohoe, il presidente dell’eurogruppo, dice che «dopo il resoconto fattuale di Giorgetti siamo stati d’accordo che bisogna riflettere sulle conseguenze», e quando infine conclude tautologicamente che «ci siamo impegnati a impegnarci», lascia intendere ciò che non può dire: che anche su questo il governo Meloni ha come unica strategia di barcamenarsi. Una exit strategy arriverà dopo le elezioni di giugno.

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