La polemica sui ritardi nelle consegne dei vaccini all’Europa ha un vizio di fondo: è vero che la Commissione europea ha negoziato con le aziende a nome degli stati membri. Ma è vero pure che assieme a Sandra Gallina, capo-negoziatrice per Bruxelles, c’erano i rappresentanti di sette governi, fra i quali il nostro e quelli di Francia e Germania. E tutti i governi erano sempre aggiornati sull’andamento dei negoziati, conclusi con il loro consenso; i dettagli su contratti e forniture, in gran parte segreti all’opinione pubblica, sono ben noti agli esecutivi. La Commissione, la “voce unica” con cui l’Europa ha parlato, condivide coi governi le responsabilità.

C’è però un punto sul quale Ursula von der Leyen ha precise responsabilità: il modo in cui ha gestito la crisi delle ultime settimane. Che di crisi si tratti lo conferma, pur non volendo, Gallina stessa, che lunedì ha ammesso: «AstraZeneca doveva essere il vaccino usato in massa nel primo trimestre, invece l’azienda ci dà circa il 30 per cento di quanto stipulato». Von der Leyen vanta ora di aver recuperato qualche dose, ma pure le sue più rosee previsioni, «40 milioni di dosi nei prossimi due mesi», sono inferiori ai 100 previsti. La sua risposta al problema suscita ulteriori scontenti.

La guerra del venerdì

La leva più forte attivata da Bruxelles è il controllo delle esportazioni: quando le dosi partono dagli stabilimenti con sede in Ue, l’azienda deve informare le autorità nazionali e attendere l’ok. Ma la proposta è stata condivisa venerdì con il collegio di commissari solo mezz’ora prima che venisse chiesto loro di formalizzarla. In più, senza che il governo irlandese venisse neppure informato, il piano, per come era stilato inizialmente, ha rischiato di mettere in discussione gli accordi su Brexit, e cioè la promessa di garantire un confine fluido tra le due Irlande; l’assenza di controlli alla frontiera serve a mantenere la pace e gli “accordi del venerdì santo”. Von der Leyen su questo punto ha fatto retromarcia, ma nel farlo è inciampata ancora: ha scaricato le responsabilità sul vice, Valdis Dombrovskis. L’ex premier finlandese Alexander Stubb ha commentato: «La prima regola di un buon leader è non svergognare la squadra». Ci si è messo pure Jean-Claude Juncker, predecessore di von der Leyen, a sconfessarla: «Sono assai contrario al controllo sull’export», ha detto.

Prima tedesca, poi europea

Quell’idea viene dal governo tedesco, ed è il secondo vulnus della presidente: invece di guidare l’Europa, pare rincorrere Berlino. La scorsa settimana, mentre i rapporti con AstraZeneca si facevano sempre più tesi, non ha concesso ai cronisti europei neppure un briefing, per poi comparire, il 31 gennaio, sulla rete tedesca Zdf. Lunedì Merkel ha organizzato un incontro con le aziende; hanno partecipato due commissari. Bruxelles va da Berlino, ma svicola le richieste dell’Europarlamento; per esempio, la trasparenza. Michèle Rivasi e altre eurodeputate verdi aspettano ancora risposta alla richiesta di più informazioni sugli impegni con le aziende, e non escludono di rivolgersi alla Corte di giustizia.

Von der Leyen, che ha già schivato la plenaria di gennaio, la prossima settimana parteciperà ma solo dopo aver incontrato a porte chiuse ciascun gruppo. Sophie in’t Veld, di Renew, dice: «È un errore grave, alimenta la sfiducia. Altro che incontri riservati, risponda pubblicamente». Sta gestendo male la crisi? «Smetta di far danni». Mentre la stampa anglosassone bersaglia i fallimenti di von der Leyen, il suo portavoce scrolla le critiche con un «non è il Papa», e lei stessa dice che «in politica ci sono alti e bassi, vale il finale». Dietro la frase c’è la certezza che le critiche non faranno vacillare la sua poltrona. Nota Simon Hix, politologo dell’Lse, che «non fu scelta in quanto frontrunner di un gruppo politico, ma dai governi», in primis Germania e Francia che è accusata di assecondare. «E gode di una maggioranza trasversale». L’alternativa non è dietro l’angolo.

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