«Serve una scossa. È il momento di fare tabula rasa. Dobbiamo estirpare l’erbaccia della cattiva politica». Giuseppe Conte arriva si presenta con un’ora di ritardo alla conferenza stampa, a Bari, che ha convocata il giorno prima ma provvidenzialmente perfetta nel timing.

È la mattina dopo la terza ondata di arresti: ancora favori e scambi elettorali, ancora toccano il Pd, stavolta – è la terza inchiesta da fine febbraio – sono sette gli arrestati, ai domiciliari finiscono un ex assessore della giunta di Michele Emiliano e suo fratello, Alfonso e Enzo Pisicchio. Il primo, poche ore prima dei provvedimenti, era stato dimissionato dallo stesso Emiliano da commissario dell’Arti, l’Agenzia per la tecnologia. Il presidente aveva visto arrivare la nuova valanga di guai sulla sua giunta? Aveva avvertito la segretaria? A sera gli interrogativi restano ancora senza risposta.

Conte però attacca alzo zero il Pd, lo sfida sul suo, la “questione morale” («non combattiamo solo Meloni e soci, non facciamo sconti nemmeno a chi è nel nostro campo»). È il cavallo di battaglia della segretaria, dall’inizio, con i suoi avvisi «ai cacicchi». Il presidente M5s le ritorce la battaglia contro, e annuncia l’uscita dalla maggioranza della giunta pugliese: le dimissioni dell’assessora Rosa Barone e la restituzione delle deleghe dei consiglieri M5s. Ma, attenzione, non usa toni ultimativi con il presidente. «Nessuno può disconoscere le battaglie antimafia di Emiliano», dice, anzi riconosce al suo migliore amico nel Pd che la sua giunta «ci è molto affine a livello politico»; ma serve «una disinfestazione», un’«opera di pulizia nel mondo politico». È un’uscita dalla giunta, ma non una rottura definitiva.

A fine conferenza incontra Emiliano e gli consegna la sua proposta: un «patto per la legalità». E se qualche minuto prima aveva lasciato intendere una richiesta di azzeramento generale, nero su bianco, oltre alle verifiche per i consiglieri e i nominati, c’è invece la richiesta dell’istituzione di un assessorato alla legalità. Viene sottolineato che non è una battaglia «distruttiva e di autoisolamento», ma anzi «una richiesta alla politica di autoriformarsi», perché non si può lasciare la funzione moralizzatrice ai pm, non si invoca «una nuova Mani pulite». Alla fine Emiliano parlerà di «incontro sereno» e ringrazierà per «i buoni suggerimenti». Insomma: i due non hanno rotto. A sera aggiunge: «Non era indispensabile l’uscita del M5s dalla giunta per ribadire i nostri comuni convincimenti». Insomma, c’è stato un po’ di teatro.

Schlein, l’ira sul Pd pugliese

Intanto il Pd sembra un pugile alle corde. Per ore i vertici del Nazareno restano blindati. A Bari le tv locali riferiscono di una telefonata «burrascosa» fra Elly Schlein e il segretario regionale Domenico De Santis. Lei gli chiede di cacciare dal Pd tutti gli esponenti «attinti» dalle inchieste, lui oppone qualche cautela: perché nell’elenco dei proscritti ci sarebbero anche persone «non attinte».

Ma del contenuto del colloquio non ci sono conferme. Trapelano anche indiscrezioni su un duro confronto tra la leader dem e il presidente Emiliano. Dal Nazareno, però, non trapela quasi niente: giusto l’ira della segretaria per l’ennesima palata di fango sulla “comunità”. Schlein non viene convocata, la linea sarebbe «i problemi di Bari li risolvono a Bari». Ma non è così. I “problemi di Bari” si riversano su tutto: sulla campagna per le europee, sulla commissione costituzionale della Camera in cui le opposizioni si scagliano contro l’autonomia differenziata, ma nell’indifferenza generale. Comunque nel Pd di Bari scoppia il caos. Nessuno ha creduto al passo indietro del candidato di Sinistra italiana e M5s Michele Laforgia. Che in effetti non l’ha fatto: ha solo rimesso la sua corsa ai sostenitori, che però lo hanno confermato.

In città arrivano Nichi Vendola e Nicola Fratoianni: cercano “il terzo nome” per le comunali. Se al voto il centrosinistra andrà diviso, i rossoverdi saranno divisi al cubo: Angelo Bonelli resta fedele al candidato del Pd Vito Leccese.

Una manciata di dem chiede di convergere su Laforgia, aderendo all’appello di Conte. Tra loro c’è Titti De Simone, la rappresentante della mozione Schlein alle primarie. Ma è una minoranza. Leccese è l’ex capo di gabinetto di Decaro e ancora prima di Emiliano, che resta il signore della politica pugliese. Leccese è stato votato dal 90 per cento dell’assemblea del Pd Bari e oggi, viene riferito, «quel 90 per cento è ancora più incazzato di prima per il no alle primarie». Dunque con Conte. Ma se il giorno dello stop alle primarie Schlein non ha esitato a dire che il presidente M5s «aiuta(va) la destra», stavolta il problema per il Pd si rivela ben più grande delle furbizie di Conte. Certo, trovare il “terzo” uomo aiuterebbe a sfiammare l’incendio.

Le vituperate correnti

A Roma le vituperate “correnti” collaborano, mantenendo il silenzio. Da giorni c’è chi ha suggerito a Schlein di ottenere un passo indietro di Emiliano. Ma è possibile, alla vigilia delle europee? Ma basterà cacciare tre o quattro notabili? I dirigenti più esposti tacciono in attesa della linea. In assenza, prevale il fastidio per il tentativo di M5s di mettersi alla guida della moralizzazione contro il trasformismo (una lezioncina effettivamente indigeribile da uno che ha guidato un governo con la Lega e subito dopo con il Pd).

Parla Andrea Orlando: «A Conte dico: fermiamoci un attimo e cerchiamo di capire quali sono le regole che contengono questi fenomeni. A cavalcare la tigre ci si rimane sopra». Su La7 Paola De Micheli rincara: «Conte sta usando l’atteggiamento giustizialista peggiore di quanto fatto dal governo di centrodestra». Simona Bonafè: «Patenti di legalità noi non le riceviamo né da Conte né dalla destra».

La verità è che, dalla sinistra ai riformisti, fino a sera nessuno sa su quale ipotesi lavora il gabinetto di guerra del Nazareno: «Siamo fuori da ogni tipo di informazione. Siamo pronti a dare una mano, ma la segretaria vuole una mano?».

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