«Sul serio non si poteva fare di meglio?», ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, uccisa dal suo ex ragazzo lo scorso 11 novembre, in una storia su Instagram. Si riferisce al modo in cui è stato affrontato il tema del femminicidio a Sanremo con la partecipazione del cast di Mare Fuori, durante la seconda serata. Cecchettin l’ha definito «un siparietto intriso di pinkwashing», di cui «le vittime di femminicidio e le sopravvissute se ne fanno poco», citando le parole della scrittrice Carlotta Vagnoli.

In conferenza stampa Amadeus ha risposto: «Pur rispettando il suo parere», è stato «un intervento bello» quello portato sul palco dell’Ariston. «Accetto il suo giudizio, ma non la chiamerò», ha detto, aggiungendo: «Comunque penso che si debba chiamare una persona se ci si deve scusare, e io non credo di doverlo fare».

«Le opinioni di Elena Cecchettin sono valide perché è una femminista, non perché è la sorella di Giulia», sottolinea Giulia Blasi, autrice e scrittrice che si occupa di femminismi. Il suo parere, continua, «ha valore perché è una persona che si occupava di violenza di genere», anche prima del femminicidio della sorella. Blasi sottolinea che il punto centrale non è telefonare a Cecchettin, ma capire che la critica di un prodotto culturale è legittima per chiunque.

Nominare

C’è qualcosa che non funziona in partenza, nella scelta fatta dagli autori di Sanremo di portare sul palco dell’Ariston il tema del femminicidio. Il testo recitato dagli attori e dalle attrici è stato scritto da un uomo e non parla di femminicidio.

Amadeus ha annunciato di voler dare «un piccolo contributo al cambiamento, perché cambiare si può e si deve, anche cambiando le parole». E proprio il linguaggio usato dall’autore del testo, Matteo Bussola, ha portato fuori strada: si parlava di relazioni, non di violenza maschile sulle donne o di femminicidio.

Il conduttore le ha definite «le nuove parole dell’amore»: ascolta, accogli, accetta, impara, verità, accanto, no e insieme. «Ma se vuoi parlare di femminicidio parli della violenza maschile sulle donne, chiamandola con il suo nome», dice Giulia Blasi.

Per la ricercatrice in Sociologia dell’Università di Strasburgo Cristina Oddone, «a questo discorso è stata data una cornice molto povera, perché è stato raccontato come un fenomeno a sé stante, sospeso, che non si sa come interpretare». Si è scelto di inserirlo in un evento mediatico di grande visibilità «perché è un tema in agenda, non trascurabile, ma senza nessuna cornice di senso per interpretarlo».

Nel raccontare come dovrebbe essere una relazione, non è in alcun modo stata nominata la radice della violenza: la cultura patriarcale, la cultura dello stupro, la mascolinità, il modello maschile imposto, gli stereotipi di genere, il privilegio. Né sono state nominate le diverse forme di violenza: psicologica, economica, fisica. Il substrato che porta in alcuni casi all’apice, il femminicidio, la punta dell’iceberg.

Non si può parlare di femminicidio, spiega Oddone, «senza parlare di disuguaglianze di genere e nelle rappresentazioni, di sessismo, della distribuzione diseguale del lavoro di cura nella società italiana».

Narrazione maschile

«Se si decide di affidare a un uomo il compito di parlare di femminicidio, dobbiamo però parlare di violenza maschile», continua Blasi, «non farci raccontare come dovrebbero essere le relazioni e, per l’ennesima volta, sottrarre alle donne che se ne occupano da anni la possibilità di far sentire la loro voce».

Se gli uomini vogliono prendere parola sul fenomeno, aggiunge Blasi, si chiede loro di ripensare al modello culturale che incarnano, ai comportamenti quotidiani, alle dinamiche di sopraffazione. Altrimenti nessuno si identifica nell’autore della violenza, si prendono le distanze e «nessuno si mette in discussione».

Per la scrittrice viviamo in una società che sa che esiste la violenza in generale ma non è consapevole di chi la agisce, della matrice culturale, delle circostanze che la facilitano. Come se ogni uomo che la agisse isolato dagli altri, e non perché esiste un contesto culturale che lo consente.

Il racconto messo in scena a Sanremo trasmette poi il messaggio della corresponsabilità: donne e uomini sono entrambi responsabili della violenza. «Viene data simmetria al rapporto di coppia», spiega Oddone, «quando si pensa che anche le donne devono vigilare, sapersi smarcare, portare la responsabilità delle violenze che subiscono, come se fossero nella società sullo stesso piano». E riduce la questione alle relazioni interindividuali, ignorando l’esistenza di un sistema.

Il discorso pubblico

«In questo momento non mi aspetto nulla dall’indirizzo della Rai», dice Giulia Blasi, «ma in generale sul tema della violenza Sanremo è sempre stato molto carente». «In Europa si reagisce diversamente, ci si dimette per molto meno», conclude Oddone, ricordando quanto detto da Amadeus qualche anno fa, sulla necessità che le donne facciano un passo indietro, perché «in altri paesi, come la Francia e la Spagna, queste gaffe nel discorso pubblico non sono più tollerabili».

Ma il problema, oltre al linguaggio, rimangono le politiche. Mancano fondi ai centri antiviolenza, che ricevono i finanziamenti in ritardo, è sempre più difficile accedere al diritto all’aborto ed è sempre più a rischio l’attuazione della Convenzione di Istanbul.

Di fronte alle proteste degli agricoltori c’è stata un’apertura da parte del conduttore del festival. Non è successo lo stesso dopo le critiche sulla narrazione del femminicidio. E Blasi ironizza: «Possiamo dire che ci mancano i trattori come femministe?».

© Riproduzione riservata