La lettera inviata da Elena Cecchettin al Corriere della Sera pochi giorni dopo la notizia del femminicidio della sorella Giulia ha portato un cambio radicale nella narrazione pubblica della violenza di genere e, più nello specifico, del femminicidio. «Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere», ha scritto Cecchettin nella lettera, sottolineando che la violenza non è un’eccezione ma è sistema. Un dolore privato si è così trasformato in rabbia collettiva, la stessa che ha portato per le strade migliaia di persone lo scorso 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Circa 500mila persone solo a Roma, secondo Non una di meno, il movimento che ha organizzato il corteo.

La famiglia di Giulia Cecchettin, la ragazza di 24 anni uccisa dall’ex partner Filippo Turetta l’11 novembre, ha infatti deciso di rendere pubblici i funerali che oggi si terranno a Padova, alle 11, nella Basilica di Santa Giustina a Prato della Valle, dove sono stati allestiti due maxischermi per permettere anche a chi non riuscirà a entrare in chiesa di partecipare. «Perché resti un messaggio da questa tragedia», ha detto il padre della ragazza.

Una dimensione politica

Elena Cecchettin ha portato a galla ciò che è sommerso, e che i movimenti femministi ripetono da anni: il femminicidio è solo la punta dell’iceberg, frutto di una cultura patriarcale, di dominio e potere, che passa per il catcalling – le molestie che le donne ricevono per strada, soprattutto verbali – la violenza psicologica, economica, lo stalking, il possesso, abusi fisici e altri comportamenti abusanti. 

«Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è», continua Cecchettin nella lettera. «Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». Parole che spiazzano perché, lontano dallo stereotipo della vittima, la sorella reagisce e indica le responsabilità, della società tutta e degli uomini, chiamati a «smantellare la società che li privilegia tanto». Sono loro a dover prendere posizione, a dover «educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista». 

E la grande responsabilità della politica che ogni 25 novembre interviene solamente con misure repressive, ma non introduce strumenti efficaci per un cambiamento culturale e sociale, interventi di prevenzione, educazione nelle scuole, formazione, e sostegno economico strutturale ai centri antiviolenza. Il movimento Non una di meno, nell’indire la manifestazione per la giornata internazionale, aveva sottolineato «l’insufficienza delle misure di repressione e di inasprimento delle pene» del governo Meloni.

Solo il 12 per cento dei fondi tra il 2020 e 2023 – in totale 248,8 milioni di euro – sono stati destinati infatti alla prevenzione, evidenzia l’ultimo rapporto di Action Aid “Prevenzione sottocosto”. «Tali dati», si legge nel report, «confermano la scelta dei governi succedutisi negli ultimi quattro anni di finanziare soprattutto interventi in risposta alla violenza già avvenuta piuttosto che agire strategicamente per prevenirla. Si tratta quindi di decisioni politiche che non incidono direttamente sulle cause originarie della violenza, che affondano le radici nelle discriminazioni e disuguaglianze di genere prodotte da una diffusa cultura patriarcale che perpetua rapporti di potere sessisti e gerarchici, su cui è prioritario intervenire». 

Un sistema antiviolenza che secondo l’associazione D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, è «finanziato in modo inadeguato e senza alcuna visione sistemica fondata su politiche integrate», necessaria «soprattutto per contrastare le disuguaglianze e le discriminazioni di genere e, quindi, prevenire ogni forma di violenza maschile e istituzionale».

Un fenomeno strutturale

Un linguaggio consapevole, quello di Elena Cecchettin, e una lettura lucida di un fenomeno strutturale, radicato da decenni, che in Italia e nel mondo ancora produce migliaia di vittime ogni anno: una linea rossa, come ha scritto Giorgia Serughetti sulle pagine di questo giornale, «che non flette verso il basso nelle rappresentazioni grafiche della serie storica degli omicidi, da anni in calo in Italia».

Nel 2023, secondo i dati del ministero dell’Interno, ad oggi sono 109 le donne uccise, di cui 90 in ambito familiare affettivo, nello specifico 58 da partner o ex partner. L’Osservatorio Nazionale femminicidi lesbicidi trans*cidi di Non una di meno – aggiornato al 25 novembre – ne ha contate in totale 110: «94 femminicidi, 1 transcidio, 9 suicidi e 6 morti in fase di accertamento» indotti o sospetti indotti da violenza e odio frutto della cultura patriarcale. L’osservatorio aggiunge poi almeno 16 tentati femminicidi e almeno altre 6 persone coinvolte e uccise perché presenti al momento del femminicidio. Dai dati, risultano due donne uccise dopo il femminicidio di Cecchettin: Rita Talamelli, di 66 anni, strangolata dal marito, e Patrizia Vella Lombardi, 59 anni, strangolata dal figlio.

Una tendenza non solo italiana: le stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) del 2020 contano circa 47mila donne e ragazze uccise da partner o altri familiari, a livello mondiale. «Questo significa che, in media, viene uccisa una donna o una ragazza da un familiare ogni 11 minuti», scriveva Unodc.

Raccontare la violenza

Le parole di Elena Cecchettin hanno nominato chiaramente gli obiettivi politici in cui si riconoscono le migliaia di persone che sono scese in piazza il 25 novembre. Parole «d’ispirazione per tantissime giovani donne», ha scritto l’associazione D.i.Re in una lettera aperta a Elena Cecchettin: «Ogni volta che accade un femminicidio, si leggono tante parole inutili, vuote, retoriche. Per le tue affermazioni, invece, vogliamo ringraziarti profondamente. Sono le parole giuste, che rappresentano realmente la situazione per quella che è, senza paura e con tanta consapevolezza». 

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