Facciamo un gioco: proviamo a considerare la persona Giorgia Meloni come se fosse un personaggio letterario. I personaggi letterari spesso si rivelano in qualche episodio laterale più che nelle scene madri, proprio perché in quei casi si controllano meno.

L’altro giorno, nell’incontro con la stampa estera, Meloni ha detto: «Non amo stare dove sono». Era naturalmente un assist a se stessa per poter proseguire col resto della frase («ma forse proprio per questo potrei restarci più degli altri»), quindi è giusto intenderlo innanzitutto come un’attestazione di disinteresse nei confronti del mestiere di premier – quel disinteresse («lucido», ha aggiunto dopo) che consente più duttilità e più audacia nello sperimentare.

Perdere l’amore

L’occasione aveva una coreografia parzialmente giocosa, di marca anglosassone, dove sono permessi e anzi suggeriti atteggiamenti ironici o amichevolmente aggressivi, un modo per sdrammatizzare l’ufficialità.

Lei ne ha approfittato per prendersi un po’ in giro sulla fresca sconfitta alle regionali sarde. Ma in letteratura, si sa, succede che alcune verità profonde del testo affiorino proprio in frasi apparentemente svagate o scherzose - dunque prendiamo sul serio l’affermazione: Giorgia Meloni non ama stare dov’è, cioè al vertice della compagine parlamentare.

La cosa è perfettamente comprensibile sul piano della vita privata: non dev’essere facile passare le settimane in giro per il mondo strapazzandosi la salute, rinunciando ai piaceri semplici della vita quotidiana e dovendo sacrificare il calore degli affetti familiari. Specie se a volte si ha l’impressione che i propri collaboratori non abbiano il medesimo spirito di servizio e quasi si mettano d’impegno per creare problemi.

Nella mia ricostruzione fantastica è compresa una rinuncia all’amore: immagino che in qualche piega della psiche Giorgia Meloni sia ancora innamorata del proprio compagno e padre di sua figlia, e che nei momenti bui le venga in mente che se lei non fosse stata così esposta le cose avrebbero potuto essere trattate in modo meno tranchant e più, come dire, umano.

È morto Michael Jackson

Certo, quanto a soddisfazione dell’ego, gli abiti eleganti, la frequentazione dei potenti della Terra, la confidenza con questa o quella star non possono non pesare sulla bilancia – mentre cazzeggiava con la stampa straniera a proposito dei propri sogni adolescenziali (stonata per il canto, nana per la pallavolo) ha detto che avrebbe voluto conoscere Michael Jackson ma che «è morto troppo presto»; come dire che ora forse avrebbe potuto realizzare quel sogno.

Soprattutto, per una ex ragazza che ha cominciato a far politica da adolescente, il fatto di essere stimata e apprezzata al di là dei confini nazionali, di essere considerata in Europa, non può non procurare brividi di narcisismo (anche se lei giura di essere priva di vanità, da lei promossa a “vizio capitale”). Un narcisismo serio, accompagnato dalla convinzione che far prevalere certe idee su altre possa migliorare lo stato di cose presente.

Dalla parte del torto

La simpatia istintiva che provo per il suo personaggio deriva proprio dal misto di stupore e di arroganza, come una Alice che abbia ingoiato la pillola sbagliata e ora si trovi a essere troppo cresciuta, poi d’improvviso piccola e portata via dal vento, poi di nuovo pesantissima in una continua necessità di riadattarsi («impareremo»).

Ma il lato più interessante del personaggio, come succede, è lo stratificarsi del suo carattere nel corso della storia. Non mi convince del tutto la banalizzazione di chi distingue una “Meloni di lotta” e una “di governo”, col solito corollario che una cosa è fare l’opposizione, quando puoi spararle grosse, e altra cosa è rendersi conto che certe promesse non possono essere mantenute; insomma la comiziante da Abascal, l’amica di Orbán da un lato e la atlantista convinta che stringe la mano di Biden dall’altro, la “draghiana” in politica economica.

ANSA
ANSA

C’è anche questo, naturalmente, ma sarebbe farle torto attribuirle soltanto una notevole capacità di annusare il vento e di adattarsi alle circostanze. La contraddizione semmai è più profonda e più letterariamente produttiva.

Vorrei ripartire da una frase che disse proprio negando la fiducia a Draghi: «Ci siamo seduti dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati». Una militante di estrema destra che cita Brecht, si scandalizzarono tutti e pensarono che si trattasse di appropriazione indebita. Se torniamo con la mente a quei tardi anni Novanta in cui Giorgia Meloni si è formata, soprattutto a Roma, la frase brechtiana acquista subito un’altra più psicologica verità.

Vivere nel mito

I ragazzi di destra che si formarono allora, tra una neonata Alleanza Nazionale e i ricordi del Movimento Sociale almirantiano, avevano davvero la sensazione che il mondo stesse andando verso una direzione sbagliata godendo dell’approvazione di tutti; che esistesse una lega dei finti buoni, ipocriti, che si ammantavano di belle parole mentre a loro non restava che la provocazione paradossale. La parte del torto, appunto.

Fare politica e non semplicemente azzuffarsi significava crearsi valori alternativi, leggermente tribali, capaci di opporsi a una democrazia imperante che negava se stessa trasformandosi in affarismo e tecnologia. Gli odierni attacchi al “buonismo” e al “pensiero unico”, e perfino quelli contro la cultura “woke”, hanno laggiù la loro radice. È per questo che ci tengono tanto a “rovesciare l’egemonia culturale”, egemonia che nei fatti era tutt’altro che di sinistra.

Avevano vent’anni, vivevano come molti ventenni nel mito. Non si rendevano conto di quanto i loro valori nostalgici fossero stati a loro volta intrinseci e omologhi a quel nuovo Potere consumista e finanziario che additavano come nemico. La parola “fascismo” era insieme una tentazione e qualcosa da superare per dimostrare maturità. La “democrazia” bisognava reinventarla sganciandola dalla dittatura del capitalismo cosmopolita e trovando una sua dimensione nazionale (loro dicevano “patriottica”).

ANSA

Il vero disagio

Giorgia Meloni è cresciuta dibattendosi tra questi problemi, mettendoci onestà e buona volontà, quella bontà che ora soggettivamente rivendica; discutendo coi coetanei di libertà e di violenza, di Rohingya e Palestina, di antisemitismo e comunismo. Ha assorbito lezioni di conservatorismo liberale ma continua a sentire il distacco dagli amici d’avventura come qualcosa che assomiglia al tradimento.

È questo il vero pericolo che la minaccia e che la rende interessante, perché ambigua, sul piano letterario: ora al capitalismo internazionale ci sta dentro, stringe la mano a Poteri che venticinque anni fa avrebbe considerato ripugnanti.

È questo forse il disagio intimo, a parte i fattori esterni, per cui lei non ama stare dov’è; altro che ottenere dall’Europa le rate del Pnrr. È a questo punto che deve saper dimostrare di essersi liberata dalle scorie del revanscismo, di non essere più chiusa nell’angolo della reazione rabbiosa.

La Giorgia Meloni che scherza sul proprio essere in Quaresima e sul non potersi consolare con l’alcol (un musulmano intelligente scherzerebbe allo stesso modo sul Ramadan) si oppone, qui sì sono due Giorgie in conflitto, con la Meloni livorosa di certi comizi in Sardegna, che irride agli avversari e rinfaccia ogni episodio facendo le faccette.

Che cosa intende quando parla di «buoni costretti a diventare cattivi»? Costretti da chi, e cattivi come? Con la grinta autoritaria? Se lasciasse prevalere il suo penchant lividamente istrionico, confondendo il tenere la barra dritta col fare la faccia feroce, deluderebbe (gl)i (e)lettori, sarebbe come certi personaggi romanzeschi che non sanno restare all’altezza di se stessi – da Stendhal si precipiterebbe tragicamente nell’ultimo Dickens, o addirittura in Fitzgerald e in Sologub.

© Riproduzione riservata