La mozione sul medio oriente era nata, da parte Pd, con l’intenzione di costringere Giorgia Meloni a un impegno concreto per la soluzione «due popoli due stati», visto che ormai anche Joe Biden ragiona su questa linea. Invece il voto di martedì 13 rischia di essere l’occasione per la premier della prima strizzata d’occhio alla futura linea Trump.

Dal lato delle opposizioni, la giornata si preannuncia come un momento a elevato rischio di litigio. L’iniziativa nasce dai dem che, a fine gennaio, hanno depositato per primi il loro testo. Chiede «un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza, in linea con le richieste avanzate dalle Nazioni unite, al fine di perseguire la liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani» e di «promuovere (...) il riconoscimento dello stato di Palestina da parte dell’Unione europea, nel rispetto del diritto alla sicurezza dello stato di Israele».

In quei giorni anche l’amministrazione Usa stava ragionando sul riconoscimento dello stato di Palestina, ed Elly Schlein aveva anticipato una discussione internazionale in aula che – ne era certa – andava in quella direzione. L’intenzione, lo aveva spiegato l’ex ministro Enzo Amendola, era di ricercare una convergenza unitaria. Alla maggioranza aveva chiesto «di ragionare non solo sul testo, ma sulla prospettiva del nostro paese, in Europa, anche nella tradizione della politica estera italiana».

I segnali da parte FdI erano stati negativi. Ma domenica scorsa, al primo giorno degli attacchi di Israele su Rafah, dal Corriere della Sera Schlein ha riprovato a sfidare la premier: «Chiamerò Giorgia Meloni perché è necessario che il governo si attivi. Non abbiamo visto fin qui un’iniziativa diplomatica e politica all’altezza della tradizione italiana e occorre che l’Italia invece faccia la sua parte per porre fine a questo massacro di civili e per riprendere un dialogo sulla soluzione di “due popoli due stati”».

Per tutto il giorno sono circolate voci di una telefonata di Schlein alla premier. Tutto fermo, dunque, nell’attesa dell’esito di questa chiamata. Della quale però fino a sera nessuno – né al Nazareno né a palazzo Chigi – dava conferma.

Le distanze fra FdI e Pd

Allo stato la mozione di maggioranza è distantissima da quella del Pd. Sulla questione “due popoli due stati” il testo dettato dal governo resta sulle generali: e cioè si impegna «a ribadire nelle sedi internazionali il fermo sostegno dell’Italia per una soluzione negoziata che riavvii un processo di pace credibile fondato sulla coesistenza di due stati sovrani e democratici». Niente di più preciso. Anche sui finanziamenti all’Unrwa, l’Agenzia per il soccorso dei profughi palestinesi a cui da febbraio non arriveranno più fondi Ue dopo le indagini su 12 (presunti, per ora) funzionari coinvolti nell’attacco del 7 ottobre: il Pd chiede che vengano comunque ripristinati, per la maggioranza se ne riparla «in seguito all’esito di un’indagine seria e approfondita promossa dall’Onu».

Nel frattempo le cose si sono complicate anche dal lato delle opposizioni. Fino a lunedì 12 le mozioni presentate erano cinque: quelle di Pd, M5s, Azione, Iv, e Avs. Toni diversi, ma non irriducibili, almeno finché il grillino Riccardo Ricciardi ha annunciato un aggiornamento al loro testo. Chiede al governo di «attivarsi immediatamente (...) al fine di scongiurare l’iniziativa militare israeliana nella zona di Rafah». Come nel testo del Pd, propone una missione Onu di interposizione a Gaza, e sanzioni contro i coloni israeliani in Cisgiordania. Ma ci sono due punti che possono mandare in tilt il Pd, ove mai qualcuno proponesse di votarla: la richiesta di sospensione delle «attività dell’Eni al largo di Gaza data l’illegalità delle licenze concesse da Israele in acque territoriali palestinesi».

E lo «stop alla vendita armi a Israele»: lo ha chiesto Giuseppe Conte facendo infuriare il ministro Guido Crosetto, secondo il quale dal 7 ottobre l’Italia non vende armi a Tel Aviv. Poi lo ha chiesto anche la segretaria Pd, facendo in seguito spiegare che non si riferiva all’Italia ma a paesi europei come la Germania: ma mezzo gruppo dirigente dem aveva accolto queste dichiarazioni con freddezza, per la confusione che potevano generare e per la sensazione di una rincorsa a Conte.

Nel frattempo ci sono state le polemiche di Sanremo: le dichiarazioni contro «il genocidio» da parte di due artisti, Dargen D’Amico e Ghali, gli attacchi della destra, le scuse della Rai. Nel Pd solo Piero Fassino si è dichiarato «sconcertato» per il fatto che dal palco dell’Ariston nessuno abbia ricordato il massacro del 7 ottobre. Il silenzio dei colleghi di partito è più che altro un segno di imbarazzo. Davide Faraone (Iv) sfida gli ex compagni: li accusa di «ammiccamenti al cosiddetto “pacifismo” di Conte. Vedremo domani (oggi, ndr) se il Pd si farà influenzare dalla suggestione “Ghali”».

Martedì 13 i gruppi delle opposizioni si confronteranno per verificare la possibilità di convergenze. Ambasciatore del Pd è Peppe Provenzano, responsabile Esteri e uno degli estensori della mozione (con Enzo Amendola e Alessandro Alfieri). Toccherà a lui sbrogliare la matassa con M5s. Alla vigilia l’ipotesi più accreditata è che ogni forza politica si voti il proprio testo. Sul presto Schlein e Conte si incontreranno: alle 9 e 30, in una sala a due passi dalla Camera, alla proiezione di Palazzina Laf, il film sull’Ilva di Michele Riondino, invitato a palazzo dal vicepresidente grillino Mario Turco.

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