Con il voto di domenica per il rinnovo del Consiglio legislativo è andato in scena quello che potrebbe essere l’ultimo atto della normalizzazione di Hong Kong, la “città ribelle” scossa tra il 2019 e il 2020 dal movimento di massa più insidioso per il Partito comunista cinese dopo quello di Tiananmen di trent’anni prima.

L’altro ieri il parlamentino locale di 90 membri è stato rinnovato per la prima volta in seguito alla riforma elettorale che – assieme alla legge sulla sicurezza nazionale – costituisce il perno della strategia indicata dal IV plenum del XIX Comitato centrale (28-31 ottobre 2019): cancellare, di fatto, l’autonomia politica di cui l’ex colonia britannica aveva goduto dallo “handover”, il passaggio alla Repubblica popolare il 1° luglio 1997, e ridurre al silenzio, criminalizzandola, la dissidenza, i cui esponenti di punta nei mesi scorsi sono riparati all’estero o sono finiti sotto processo a Hong Kong.

Boicottaggio inutile?

Come quella di Pechino, anche la strategia del variegato campo pro democrazia è netta: provare a delegittimare in ogni modo le politiche varate dal centro negli ultimi mesi, nella speranza che le pressioni degli Stati Uniti possano fermare il progetto del Pcc di integrare a tutti gli effetti Hong Kong nel sistema cinese.

Per questo motivo domenica hanno disertato le urne (chi ha invitato pubblicamente al boicottaggio è stato arrestato), con l’unico risultato di rimanere senza rappresentanza parlamentare.

Gran parte degli hongkonghesi però considera tuttora valide le ragioni della protesta che, articolatasi in diversi movimenti politici a partire dal 2003, è arrivata a chiedere il suffragio universale sia per il Consiglio legislativo, sia per la scelta del “chief executive”, il capo del governo locale.

Infatti i risultati pubblicati evidenziano che sono andati a votare soltanto in 1,3 milioni, cioè il 30,2 per cento dell’elettorato: l’astensionismo è stato maggiore (del 5,6 per cento) di quello più alto registrato in precedenza, nel 1995 sotto il governo coloniale britannico.

La società hongkonghese resta divisa tra il giallo, il colore della protesta, e il blu, quello dell’establishment. Eppure il capo del governo si è mostrato soddisfatto, in vista della nascita di una tecnocrazia che dovrebbe portare avanti i grandi progetti di sviluppo che Pechino ha in mente per Hong Kong.

«Quando partiranno i lavori del VII Consiglio legislativo, coopereremo pienamente con loro per rilanciare l’economia», ha dichiarato ieri la signora Kerry Lam prima di partire per la sua visita annuale a Pechino.

I 153 candidati che si sono contesi gli scranni che la riforma ha portato da 70 a 90 (riducendo da 35 a 20 quelli eletti a suffragio universale) nelle scorse settimane erano stati scrutinati dal nuovo comitato ad hoc (che elegge anche 40 membri del Legco) che si è accertato che si trattasse di “patrioti”, ovvero persone fedeli alle istituzioni locali e a quelle della Repubblica popolare cinese, della quale Hong Kong è una regione amministrativa speciale (Hksar). Gli altri 30 rappresentanti sono stati eletti in collegi “funzionali” dalle diverse categorie professionali.

L’Area della Grande baia

Il risultato è stato quello largamente e tristemente atteso: nel prossimo Legco siederanno 89 deputati dell’establishment filo Pechino e un solo esponente dell’opposizione pro democrazia, Tik Chi-yuen, fondatore del partito centrista Third Side, tra i pochi che avevano scelto di non boicottare le urne.

L’assenza dell’opposizione dal nuovo Legco permetterà a Pechino di far passare senza ostacoli le politiche del XIV Piano quinquennale (2021-2025) che mira a integrare Hong Kong all’interno dell’Area della Grande baia, un costituendo cluster di undici metropoli che ruotano attorno alla provincia industriale del Guangdong, che si punta a far diventare un gigantesco hub dell’innovazione.

Il governo cinese ha difeso la sua strategia per Hong Kong con la pubblicazione di un libro bianco intitolato “Il progresso democratico di Hong Kong nel quadro del principio ‘Un paese, due sistemi’”, che elogia il «miglioramento del sistema elettorale», che «promuove le condizioni favorevoli necessarie per l’elezione a suffragio universale del chief executive e del Consiglio legislativo».

Secondo il documento, Hong Kong è entrata in una fase di «ripristino dell’ordine». Presto si potrà regalare finalmente regalare agli hongkonghesi l’agognato suffragio universale, per votare candidati accuratamente selezionati da Pechino.

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