Mercoledì 3 gennaio in Iran, nel corso della cerimonia celebrativa in occasione del quarto anniversario della scomparsa di Qassem Soleimani, il comandante della Brigata Quds dei Pasdaran ucciso dagli americani a Baghdad, una doppia esplosione ha ucciso almeno 103 persone e ne ha ferite centinaia. L’attentato è avvenuto nella città di Kerman, dove è sepolto Soleimani, a poche centinaia di metri dalla sua tomba.

L’attacco è stato compiuto con modus operandi che rimanda a formazioni dissidenti interne che Teheran ritiene attivamente supportate da servizi “nemici”. Un micidiale uno-due, quello subito in queste ore dalle principali forze dell’"Asse della Resistenza”, che lega nel sangue lo scenario libanese-iraniano e quello israeliano. Dopo l’eliminazione mirata a Beirut di Saleh al Arouri, numero due di Hamas fautore di quella teoria dell’“unità dei fronti” che presuppone lo stretto coordinamento tra i membri dell’Asse della Resistenza, Hezbollah è davanti alla sfida posta da Israele.

Nonostante gli scambi di colpi che dal 7 ottobre si susseguono sul fronte sud, il Partito di Dio ha sin qui tenuto un atteggiamento “realista” nel conflitto: attivo sostegno alla causa “antisionista” senza far precipitare il Libano in uno scontro che potrebbe portare all’implosione del paese dei Cedri e alla drastica perdita d’influenza, nel sistema politico e nella società libanese, del movimento guidato dallo sceicco Nasrallah. La guerra senza la guerra, o la guerra in forma scandita da bassa intensità – colpi di artiglieria, missili anticarro, perdite contenute – mirata a ribadire il sostegno a Hamas e a evitare, allo stesso tempo, una resa dei conti che gli stessi capi islamisti sciiti percepiscono come decisiva per le sorti della loro organizzazione: questa è stata la linea di Hezbollah, avallata dai suoi sponsor iraniani che hanno affidato ai più “periferici” houthi yemeniti un ruolo militare più impegnativo.

La violazione

Ora l’“operazione chirurgica” israeliana che ha provocato la morte, oltre che di Arouri, di Samir Fandi e Azzam Al Aqraa, esponenti di primo piano delle brigate Ezzedim el Kassem, e di altri quattro quadri del braccio armato di Hamas, che lo stesso Arouri aveva contribuito a fondare, situa lo scontro a un livello diverso da quello prefissato.

Innanzitutto, perché Arouri è stato “eliminato” in un edificio di Dahiyeh, bastione sciita nella periferia sud di Beirut controllato da Hezbollah: violazione di un santuario del movimento che vuole presentarsi come sfregio politico e militare mirato a dimostrare come nemmeno nella sua roccaforte il Partito di Dio sia in grado di assicurare la sicurezza dei capi dei gruppi alleati e, probabilmente, quella dei propri. Il colpo inferto è anche un palese guanto di sfida a Nasrallah che, solo qualche mese fa, aveva affermato che l’omicidio in territorio libanese di esponenti di Hezbollah, o di personalità palestinesi o iraniane, non sarebbe rimasto impunito.

Ora quel “tabù politico” è stato violato, l’interdetto trasgredito. In un’operazione che pare dire: per ora Israele si concentra su Hamas, ma se il Partito di Dio decidesse di allargare il conflitto, allora, davvero «Beirut diventerebbe come Gaza». Un omicidio eccellentissimo, dunque, quello di Beirut, che mette Israele in condizione vantaggiose: se il Partito di Dio risponde solo a parole, mostra di essere una “tigre di carta” in tinta mediorientale, percezione che ne indebolirebbe il ruolo nella regione e sul piano interno; se reagisce decisamente, mette in gioco tutto: il suo potere, il suo futuro, quello dello stesso Libano.

Scenario che potrebbe divenire, comunque, realtà, ma in un contesto dal diverso significato politico se, in nome della nuova dottrina strategica post 7 ottobre, imperniata sulla parola d’ordine “nessun nemico ai confini”, Israele decidesse di procedere, magari dopo accese salve di cannone al suo confine nord, a una rinnovata Operazione Litani, questa volta mirata a cacciare, oltre la linea del 1978, non più, come allora, i palestinesi dell’Olp, ma i combattenti schierati sotto le insegne gialle del movimento sciita.

In quel caso, facendo appello all’unità nazionale davanti al nemico penetrato nel paese, Hezbollah impegnerebbe tutte le sue forze, contando sugli aiuti provenienti dal retroterra siriano, peraltro già oggetto di incursioni sia dissuasive che preventive di Tsahal, e sul coinvolgimento, diretto o indiretto, dell’Iran, che non potrebbe tollerare la liquidazione di un movimento nato, contrariamente al sunnita Hamas, come sua diretta filiazione. Per Teheran, poi, sarebbe inaccettabile il ridimensionamento della sua area d’influenza ideologica e geopolitica.

Sarebbe questo, più che l’attuale sommatoria delle mini proxy war locali in corso nell’area, il temuto, vero, allargamento regionale del conflitto. Quell’essere «pronti a ogni scenario» annunciato senza infingimenti dal governo Netanyahu, che entrerebbe in campo con un obiettivo minimo e uno massimo – allontanamento di Hezbollah dai confini, distruzione politico-militare dell’organizzazione – rimanda anche alla possibile deflagrazione della guerra sul fronte libanese. Guerra che non potrebbe essere condotta senza l’appoggio americano, che Netanyahu non esiterebbe a sollecitare, e condizionare, dopo una reazione militare del Partito di Dio, con una serie di mosse destinate a impedire ogni sgradita soluzione politica del conflitto.

Le parole di Nasrallah

È in questo agitato sfondo che lo sceicco Nasrallah ha tenuto in diretta tv il previsto discorso celebrativo per Soleimani, rinviando, però, al prossimo venerdì quelli che definisce «certi temi di attualità». Mossa che gli consente formalmente di rispettare il programma ma anche di guadagnare tempo e consultarsi sul che fare con Teheran, che a sua volta annuncia una risposta «potente e schiacciante» e «nel più breve tempo possibile» all’«atto terroristico» di Kerman.

Sebbene il capo di Hezbollah ribadisca, anche in questa circostanza, che i membri dell’Asse della Resistenza sono autonomi e decidono «in funzione dei loro interessi», le sue scelte sono più che mai legate a quelle dei confratelli maggiori iraniani. La risposta che turbanti ed elmetti, a parole, vorrebbero “distruttiva” e, in realtà, cercheranno di dosare perché non sia percepita come tale – il loro imperativo è far durare il regime – può rivelarsi, in presenza di un esecutivo come quello guidato da Netanyahu, deciso a risolvere il problema della “sicurezza di Israele”, il casus belli che, sino a quarantotto ore fa, anche a Beirut e Teheran molti esorcizzavano.

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