A quasi quattro mesi dall’attacco di Hamas e dall’inizio della guerra di Israele a Gaza, la situazione mediorientale appare quanto mai convulsa. Cresce a Gaza il numero delle vittime – a oggi 26.500 morti e 65.000 feriti – e aumenta drammaticamente l’impatto della catastrofe umanitaria sui 2,3 milioni di abitanti palestinesi, in particolare donne e bambini.

Ma sono anche scarsi per Israele i risultati, e alto il prezzo, economico e umano, della guerra. Malgrado quasi quattro mesi di bombardamenti, la distruzione di gran parte di Gaza e il massiccio dispiegamento di forze, i 132 ostaggi restano nelle mani delle fazioni palestinesi nella Striscia, Hamas è ancora in grado di resistere, solo una parte dei 700 chilometri di tunnel sarebbe stata distrutta, mentre aumenta il numero dei soldati israeliani caduti.

Il governo e l’establishment militare ribadiscono che la guerra sarà ancora lunga, ma l’obiettivo dichiarato dal governo Netanyahu, la totale eliminazione di Hamas, comincia ad apparire ai più elusivo e di difficile realizzazione. Nel frattempo, si complica il quadro regionale e sono ormai molteplici i focolai di tensione. Malgrado gli sforzi delle diplomazie occidentali e regionali per evitarlo, un allargamento del conflitto potrebbe scaturire dalla continua escalation nei diversi teatri di crisi fra Israele e il suo stretto alleato statunitense e il cosiddetto Asse della Resistenza filoiraniano.

S’intensifica sul fronte nord il confronto fra le Forze di difesa israeliane (Idf) e Hezbollah. Droni, missili e artiglieria colpiscono ormai obiettivi in profondità, e hanno provocato l’evacuazione di migliaia di persone ai due lati del confine.

Nelle scorse settimane Israele ha, inoltre, ucciso in Libano un importante comandante militare di Hezbollah e il numero due di Hamas. La reazione di Hezbollah – preoccupato forse per le ricadute di una guerra totale con Israele mentre il Libano attraversa una profonda crisi economica e sociale – sembra per il momento cauta. Ma in Israele sono in molti quelli che ritengono che l’estensione della guerra sia inevitabile.

O addirittura auspicabile: un’opportunità per mettere fine una volta per tutte alla minaccia Hezbollah, spina nel fianco di Israele dalla guerra del 2006. Considerando le risorse e le capacità militari delle milizie sciite libanesi, l’apertura di un secondo fronte ad alta intensità a nord sarebbe però carica di pericoli tanto per Israele quanto per la regione.

Caos commerciale

Nel mar Rosso da diverse settimane gli Houthi portano avanti attacchi contro mercantili – legati a Israele secondo il gruppo yemenita – nella trafficatissima rotta che collega l’oceano Indiano al canale di Suez attraverso lo stretto di Bab el Mandeb. Per questa rotta transitano il 12 per cento del commercio mondiale e il 30 per cento dell’approvvigionamento energetico europeo.

Pur se i danni e l’impatto sono stati sinora limitati, gli attacchi sono bastati a provocare il panico. Le coperture assicurative sono schizzate alle stelle e, per evitare rischi, molte compagnie di navigazione hanno deciso di circumnavigare l’Africa, un’alternativa che allunga i tragitti di almeno 7 giorni.

Le conseguenze dei ritardi negli approvvigionamenti e degli accresciuti costi si ripercuoteranno inevitabilmente sulle economie europee e asiatiche. Non sorprende quindi che le iniziative in difesa della libertà di navigazione nello strategico mar Rosso si moltiplichino.

La Cina ha chiesto all’Iran di intervenire sugli Houthi perché pongano fine agli attacchi, mentre l’Unione europea prepara una missione navale di scorta e protezione. Gli Usa e la Gran Bretagna hanno invece optato per l’intervento militare, anche se solo un ridotto numero di paesi ha aderito alla coalizione. Dall’11 gennaio aerei anglo-americani hanno ripetutamente colpito istallazioni Houthi in Yemen.

Ma a oggi l’efficacia dell’intervento appare limitata e i lanci di droni e di missili dallo Yemen continuano. Anche perché gli Houthi sono usciti rafforzati da quasi dieci anni di guerra civile, adattando tattiche e capacità militari per resistere agli intensi bombardamenti sauditi ed emiratini. Anche questo fronte presenta dunque rischi importanti. L’intervento potrebbe destabilizzare ulteriormente lo Yemen, minando i già difficili negoziati di pace e riaccendendo la guerra civile. Ipotesi questa poco gradita dall’Arabia Saudita che cerca da tempo di uscire dal pantano yemenita.

In Iraq e Siria le milizie filoiraniane sono impegnate da settimane in azioni contro obiettivi americani, subendo a loro volta le limitate ritorsioni Usa. Ma l’attacco drone al confine tra la Giordania e la Siria di domenica scorsa potrebbe segnare un cambio di passo.

Con l’uccisione di tre militari statunitensi, i primi in questa crisi, è inevitabile una dura risposta. Ma è da vedere se gli Usa riusciranno a calibrarne la portata e a evitare l’escalation. A Washington e a Tel Aviv crescono le critiche dei falchi che chiedono di colpire l’Iran, additato come il mandante di tutte le dinamiche belliche dell’asse.

A sua volta l’Iran si muove con cautela, negando un suo coinvolgimento e ribadendo che i membri dell’Asse della resistenza sono alleati che agiscono in autonomia. Al contempo la Repubblica islamica ha dimostrato di voler salvaguardare i canali di comunicazione con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo interessati a ridurre la tensione nella regione.

Ma è probabile che l’Iran, che da anni sostiene le azioni destabilizzanti di diverse milizie regionali, sia in qualche modo implicato nelle recenti dinamiche escalatorie, cercando di trarne vantaggio. E non sono mancati episodi in cui Teheran ha voluto mostrare i muscoli: ad esempio colpendo una struttura ritenuta appartenere al Mossad nel nord dell’Iraq in ritorsione per l’eliminazione di membri delle Guardie della rivoluzione, e attaccando un gruppo terroristico iraniano in Pakistan. Queste azioni sono chiaramente a scopo dimostrativo. Anche se l’Iran teme la guerra con Israele e gli Usa, ci tiene a dimostrare di essere pronto a usare la forza.

Vi è infine la continua pressione israeliana in Cisgiordania, dove dal 7 ottobre si sono intensificati i raid dell’Idf e dei coloni sulla popolazione palestinese. Tali azioni potrebbero provocare l’esplosione dei territori occupati, una nuova intifada con risposte violente e un’intensificazione degli attacchi contro obiettivi israeliani.

Tutti gli attori sono dunque presi in un difficile equilibrismo per mantenere le posizioni evitando al contempo l’escalation. Ma perdurando la guerra a Gaza tali tentativi divengono sempre più ardui. La situazione potrebbe scivolare verso uno scenario di guerra regionale. In questo contesto, l’unica strada percorribile per invertire la rotta e iniziare un processo di de-escalation è il cessate il fuoco a Gaza. E su questo si innesta la confusa fase politica in cui sembra essere entrata la crisi.

I passi necessari

In Israele il sostegno popolare alla guerra di Gaza continua a essere forte, ma s’intensifica la protesta dei cittadini che chiedono di dare priorità a salvare gli ostaggi. Cresce la consapevolezza della pressione internazionale per ridurre l’intensità del conflitto, e dei danni che la brutale condotta della guerra ha portato all’immagine del paese, anche in considerazione della recente decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja sulla plausibilità delle accuse di genocidio sollevate dal Sudafrica.

Tutto ciò mentre aumenta lo scontento, con la leadership di Netanyahu ai minimi storici nei sondaggi. Una grande maggioranza degli israeliani lo considera responsabile della debacle del 7 ottobre e non all’altezza delle sfide poste dalla crisi.

Molti analisti concordano nel ritenere che la carriera politica di Netanyahu sia ormai al termine, ma proprio per questo il primo ministro potrebbe cercare di prolungare il conflitto. Mentre sembra difficile che Israele possa andare a elezioni fintanto che dura la guerra, le divisioni nel gabinetto di guerra si acuiscono, anche per le continue provocazioni dei ministri dell’estrema destra religiosa.

Fra gli ultimi episodi, la recente conferenza in appoggio alla “migrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza e il ritorno dei coloni nella Striscia. Non è escluso quindi che la crisi politica si aggravi, ma è incerto se ciò porterà Israele a riconsiderare la sua strategia. Resta comunque il fatto che la società israeliana è fortemente polarizzata. E, in un paese traumatizzato dallo shock del 7 ottobre, la destra religiosa radicale massimalista, che ha recentemente dominato la scena politica, potrebbe continuare ad avere buon gioco.

Ma negli Usa cresce la pressione per fermare la guerra. Il presidente Biden ha sinora dimostrato un sostegno granitico a Israele, non tenendo conto che i cambiamenti politici e sociali incorsi negli ultimi anni in Israele avrebbero forse richiesto di ricalibrare la relazione, nell’interesse della stabilità regionale e degli stessi Usa.

Gli Stati Uniti sembrano invece aver rinunciato a esercitare pressioni credibili su Israele per contenere i drammatici effetti della guerra sulla popolazione palestinese. Ma le priorità della campagna elettorale potrebbero obbligare l’amministrazione a un cambio di passo.

Biden è conscio che l’appoggio incondizionato a Israele, contestato da una parte degli elettori democratici, soprattutto i più giovani, rischia di costargli la rielezione. È forse per questo, e per evitare i più gravi scenari di conflitto regionale, che da questa confusa fase politica si potrebbero aprire speranze di una possibile soluzione diplomatica.

Si moltiplicano le indiscrezioni su un’iniziativa mediata da Qatar, Egitto e Usa per un cessate il fuoco umanitario di due mesi, che consentirebbe la liberazione negoziata degli ostaggi e l’accesso di aiuti umanitari in quantità sufficiente per far fronte agli immensi bisogni degli abitanti di Gaza.

La speranza è di riuscire in questi due mesi a trovare un accordo per la cessazione definitiva delle ostilità, avviando al contempo un quanto mai urgente processo di de-escalation regionale. Si aprirebbe allora la complicatissima fase del dopo guerra con problemi – la ricostruzione, la governance di Gaza, la fine dell’occupazione militare e dell’espansione delle colonie illegali in Cisgiordania, il rilancio della soluzione dei due stati in condizioni che garantiscano al contempo la sicurezza di Israele, per citarne solo alcuni – che appaiono oggi di difficile soluzione.

Ma la portata di questa nuova crisi richiede, ora più che mai, il coraggio di riaprire negoziati che possano essere credibili per tutti gli attori regionali.

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