Come era prevedibile, l’attenzione mediatica sul conflitto ucraino si è affievolita e con questa l’attenzione maniacale alla conta degli arrivi giornalieri. Già dal 24 febbraio si parlava di 5 milioni di sfollati verso l’Unione europea, 900mila nel nostro paese. Dati rivisti al ribasso, in seguito, ma sempre oltre il mezzo milione.

Quando a inizio luglio le cifre si sono attestate intorno ai 146mila arrivi, per di più con bus di ritorno verso l’Ucraina, l’emergenza mediatica è ormai scemata, la questione ha assunto i tratti complessi e meno attraenti dell’integrazione e i dati snocciolati  riportano l’attenzione al nostro Mediterraneo. Teatro, quest’ultimo, in cui il dibattito sul fenomeno migratorio torna ad assumere i toni consueti e disinvolti della contrapposizione politica: quelli ucraini sì che sono veri rifugiati, donne e bambini in fuga da una guerra che lascia dietro uomini a combattere. A confermare, le statistiche nostrane sulla composizione degli ucraini arrivati.

Tanto supporto bipartisan per l’accoglienza verso gli ucraini strapperebbe un applauso se non si portasse dietro il peso dell’insinuazione prima ancora che della  discriminazione. Sono bastati il ritorno delle Ong dopo gli stop in banchina causa maltempo e Covid-19 e la crescita sostanziale degli arrivi da gennaio dal fronte sud a dividere la politica interna e dunque a indebolire il ruolo politico dell’Italia e le sue richieste ai tavoli europei, con buona pace di chi lamenta l’orecchio sordo di Bruxelles. Così pure la “piattaforma di solidarietà” siglata dalla presidenza francese a fine mandato a favore dei paesi del Mediterraneo è liquidata da parte della politica interna come ennesima fregatura.

Eppure, una lettura attenta dei fatti di questi mesi rifugge la logica dicotomica dell’esistenza di un fronte est diverso e separato rispetto a un fronte sud, di guerre vere fatte di carriarmati, armi, strategie chiare e prevedibili con prevedibili effetti e invece di mosse scomposte, segnali di fumo poco riconoscibili. E questo nonostante l’infornata di geopolitica dura e pura tornata prepotentemente alla ribalta sui media tutti.

Semplicemente,  il mondo è complesso e qualitativamente diverso rispetto al passato: l’invasione armata di un territorio sovrano nel cuore dell’Europa, polveroso ricordo di un passato remoto, racconta una storia conosciuta e semplice ma è in tutto e per tutto un conflitto profondamente contemporaneo, figlio della globalizzazione, utilizza strumenti diplomatici e di pressione diversi, si muove agilmente sfruttando i confini porosi se non eterei del mondo contemporaneo e produce effetti difficilmente ponderabili per qualsiasi attore in gioco.

Emergenza ucraina

Il fenomeno migratorio, come si sa, è tratto caratterizzante di questa contemporaneità, più croce che delizia molto spesso; una croce che pesa, come quelle che indicano terra nei porti italiani, ma una sfida che forza l’Italia (non a sufficienza a volte) a comprendere il segno dei tempi, a inquadrare il contesto globale, le sue interconnessioni, dinamiche e tendenze di lungo periodo. È attraverso questa lente di osservazione che l’Italia cerca, ormai sempre più insistentemente in queste settimane e con un’attività diplomatica da capogiro, di spiegare che l’emergenza ucraina non si esaurisce con un piano di accoglienza adottato in via eccezionale. Così come, la “crisi dei rifugiati” non si concluse con il famoso Statement con la Turchia del 2016 o con il patto con la Libia del 2017.

L’approccio del “mettiamoci una pezza” non funziona, non oggi. La questione ucraina ci interroga invece sugli strumenti a disposizione per affrontare questa contemporaneità e gestirla nel lungo periodo a partire dalla capacità di intuire il quadro d’insieme che facciamo fatica a cogliere zoomando troppo su un singolo evento.

Lo stupore generale che ha fatto seguito all’attacco russo all’Ucraina del 24 febbraio non deve trarre in inganno: tra i circoli più alti in Europa la mossa di Mosca era data per certa, così come certa sarebbe stata l’onda d’urto sulla popolazione civile. Il Consiglio straordinario dell’Unione convocato a ridosso dell’attacco metteva nero su bianco la crucialità della questione migratoria: un’altra arma, quand’anche ibrida, nell’arsenale di Putin.

Di strumentalizzazione parlava l’Unione, concetto che poco piace ai critici della politica migratoria comunitaria; un attacco all’integrità dell’Ue, già tentato e fallito (dipende dai punti di vista) qualche mese prima a opera del leader bielorusso, con appoggio di Mosca. Quel “siamo pronti” dei vertici europei era dunque più un monito a Putin che un invito ai possibili sfollati a varcare il confine dell’Unione. La dimostrazione della compattezza europea passava così anche attraverso la de-securitizzazione se non de-politicizzazione del fenomeno, dell’atavica paura dell’invasione. Anzi, semmai l’assertività europea era un invito a ridurre le ambizioni russe e dunque la scala dell’attività bellica; scoraggiare, ad esempio, l’allargamento delle ostilità alla Moldavia (che pure è oggetto di mire revansciste da parte di Mosca), per evitare ulteriori flussi, non da ultimo verso l’Italia (diaspora docet).

Il piano dell’Italia

Che l’Italia sarebbe stata immediatamente interessata da arrivi di ucraini era cosa nota negli ambienti governativi. Il richiamo della folta comunità ucraina ha di fatto favorito un primo importante flusso (7mila arrivi in una settimana secondo le statistiche) gestito in maniera composta, grazie appunto a contatti già presenti nelle grandi città. Non è un caso che allo studio del governo sia stata da subito la proposta di facilitare il rilascio del permesso di soggiorno per ricongiungimenti familiari a fronte di motivi umanitari.

Il piano dell’Italia, oleato da ricorrenti crisi migratorie, intendeva fare perno su un’accoglienza diffusa, con il duplice effetto di scaricare parte del peso dell’accoglienza dal sistema centrale (irrobustito comunque grazie alla dichiarazione dello stato di emergenza fino a dicembre) e di garantire, in vista della seconda e più ardua fase dell’accoglienza, un’effettiva integrazione nei territori, compresa l’identificazione di figure professionali di supporto.

Semmai, a spaventare era la questione sanitaria, con la diffusione dei contagi da Covid-19 faticosamente e costosamente tenuta a bada, a fronte del basso livello di vaccinazione degli ucraini (si sarebbe richiesto in seguito di effettuare un test entro le 48 ore dall’ingresso nel territorio nazionale e l’adeguamento agli obblighi vaccinali previsti per gli italiani) e di una ancora più bassa propensione alla prassi vaccinale. Basso anche il livello di vaccinazione pediatrica, elemento non da poco in vista della prospettiva dell’inserimento scolastico, a cui si è data assoluta priorità, dato anche l’alto numero di minori in arrivo nel paese.

Intanto, si attendevano le indicazioni di Bruxelles, ma da giorni circolava l’idea di riesumare la direttiva 2001/55 sulla Protezione temporanea: adottata all’unanimità nientemeno (ma non senza fatica e con significativi distinguo) proprio mentre giaceva agonizzante, inutilizzata e pronta a essere cestinata di lì a poco, come proposto nelle discussioni sul Patto migrazione e asilo. D’altra parte, chi se l’aspettava una nuova crisi nel cuore dell’Europa, come quella che ne motivò la sua creazione? E si sa, c’è crisi e crisi, e questa crisi vale, come mai in precedenza, l’attivazione della direttiva che di fatto supera Dublino.

Occasione d’oro dunque per l’Italia, che sogna da sempre una forma di solidarietà simile ma strutturata e duratura nel tempo, per far fronte ad analoghe situazioni di flussi massicci. Come già nelle precedenti crisi migratorie, dunque, la solidarietà verso gli sfollati è subordinata al raggiungimento di solidarietà tra stati membri. Non è un caso che le reticenze al provvedimento riguardassero proprio il timore di creare “precedenti”, soprattutto in vista di nuove ondate migratorie dal Mediterraneo. Ma che non ci sia un vero e proprio scollamento tra ciò che accade a est e a sud dovrebbe essere chiaro anche agli stati reticenti: la recente promozione della Russia a “minaccia principale della Nato” dovrebbe quantomeno imporre di monitorare la sempre più capillare infiltrazione russa nel continente africano che si produce in concomitanza con l’attacco ucraino e il possibile ruolo di questa sui flussi migratori: una possibile “tenaglia”, come rinominata nel tavolo tecnico con l’intelligence italiana, che da tempo avverte del rischio.

Dal 4 marzo, dunque, è attiva la protezione temporanea automatica per gli ucraini, già regolari nell’Unione ma ora con la possibilità di prolungare la loro permanenza oltre i novanta giorni del regime visa-free e, previa registrazione, di fruire dei servizi necessari. Da allora, il governo italiano lavora riunendo diversi ministeri (Esteri, Interni, Lavoro, Istruzione e Sanità in primis) e conferendo alla Protezione civile la gestione dell’accoglienza.

Si procede soprattutto attraverso quell’accoglienza diffusa discussa sopra, con forte coinvolgimento del terzo settore, Caritas e Refugees welcome tra gli altri come ponte di collegamento con la società civile. Si lavora anche per dare copertura finanziaria all’accoglienza e per contribuire alle spese di chi, nel frattempo, ha trovato forme autonome di sistemazione.

È fondamentale (il messaggio viene passato più volte e da più campane) che la solidarietà trovi una forma di coordinamento e di regia, proprio come si è reso necessario con le Ong nel Mediterraneo qualche anno fa.  Troppi i rischi (sanitari, possibili infiltrazioni di spie, mancanza di supporto ai servizi essenziali) e le persone vulnerabili in questione. Ma il paese dei lacci e lacciuoli si è spesso perso tra lungaggini burocratiche e ritardi nell’elargizione dei fondi: inopportuno in un contesto sociale che vede crescere dall’oggi al domani le difficoltà economiche. Ed è con il riferimento a questa crescente fragilità sociale che il nostro ragionamento torna al Mediterraneo.

Nuove e vecchie rotte

Il sostanziale incremento dei flussi verso l’Italia registrato in queste settimane ci racconta una storia articolata, fatta di nuove rotte che si aggiungono a rotte più tradizionali. Spunta la rotta ionica verso la Calabria, costituita da afghani e siriani in partenza dalle coste turche. L’Afghanistan, giusto, quasi ce ne dimenticavamo: il suo ormai certo collasso ci forzerà a ricordare. Ma i paesi in forte sofferenza sono molti altri.

L’incremento generalizzato dei prezzi delle materie prime, dei beni alimentari (o la loro totale assenza), la rampante inflazione come effetti del conflitto ucraino nell’epoca dell’interconnessione globale aggravano situazioni di già profonda precarietà dovute agli effetti di cronica instabilità, di eventi climatici sempre più avversi e di un’epidemia di Covid con impatto devastante (in Afghanistan ad esempio).

Drammatico il combinato disposto di siccità e conflitto nel Corno d’Africa e non stanno meglio molti paesi dell’Africa sub-sahariana. Ribollono di nuovo le piazze mediorientali e del nord-africa, dal Libano alla Libia e Tunisia. I flussi riflettono proprio questa variegata composizione: rifugiati che lasciano paesi di transito in profonda crisi economica e migranti che rifuggono la cresciuta precarietà nei propri paesi, come gli egiziani ad esempio.

L’impatto dell’intersecarsi di queste molteplici crisi che si alimentano a vicenda rischia di avere un impatto dirompente e tragico su una larga fetta della popolazione mondiale. A ricordarlo Sergio Mattarella nella sua recente visita in Zambia, ma anche un rapporto di Oxfam che stima in circa 300 milioni il numero di persone che si troveranno in una situazione di povertà estrema a fine 2022 (65 milioni in più rispetto alle stime della Banca mondiale dovuti solo all’incremento dei prezzi dei generi alimentari). È per questo che la “crisi del grano” spinge il governo italiano a trovare un compromesso che sblocchi i porti del mar Nero; non è la fermezza che viene meno, quanto la comprensione della portata di quei segnali di fumo già ben visibili in Italia. 

Ecco perché parlando di Ucraina non si può dimenticare il Mediterraneo.

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