Come in occidente, anche in Cina gli studiosi di relazioni internazionali si dividono grosso modo tra quelli che adottano un approccio geopolitico, mettendo la sicurezza e i rapporti tra stati al centro delle loro analisi, e quelli invece che guardano soprattutto all’economia e al commercio internazionale come determinanti le decisioni strategiche dei governi. A questa seconda corrente appartiene Zha Daojiong, professore di economia politica internazionale presso la Scuola di studi internazionali della prestigiosa università di Pechino (Beida).

Una carriera accademica tra occidente ( ha insegnato negli Stati Uniti, in Europa, e Australia) e oriente, Zha non si unisce al coro di studiosi, anche molto autorevoli, che – negli Stati Uniti, in Europa, ma anche in Cina – da qualche tempo hanno preso a rappresentare come “quasi inevitabile” uno scontro tra la potenza in ascesa e quella egemone. Al contrario Zha, che ha risposto da Pechino alle domande di Domani, vede una convergenza tra la strategia di Joe Biden e quella di Xi Jinping e punta l’indice contro l’esercito di consulenti governativi e agitprop che stanno contribuendo ad avvelenare le relazioni bilaterali tra Cina da una parte e, dall’altra, gli Stati Uniti e l’occidente.

Professor Zha, in occidente un conflitto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan viene percepito come “quasi inevitabile”. Lei invece, in un articolo pubblicato su “ThinkChina”, ha affermato che non ci sono motivi per una guerra. Può spiegarci il suo punto di vista?
Affinché si materializzi, una guerra richiede l’impegno, da entrambe le parti, per una soluzione militare delle divergenze politiche. Né Taiwan né la Cina continentale si trovano in questo stato. Le rispettive costituzioni, in riferimento all’identità nazionale, parlano entrambe di “Cina”. E né Taiwan né la Cina continentale ritengono che la guerra sia la soluzione “inevitabile” per il loro persistente disaccordo sulla sovranità.

Certo, a partire dagli anni Cinquanta il panorama politico a Taiwan è cambiato e oggi ci sono forze che sostengono l’idea di ottenere lo status di nazione autonoma (il Partito progressista democratico della presidente Tsai Ing-wen, ndr). Ma nello stesso quadro ci sono anche partiti (il Kuomintang all’opposizione, ndr) che continuano ad accettare la natura delle attuali differenze tra la Cina continentale e Taiwan come portato della guerra civile cinese, rimasta in stallo dal 1949.

Finora, nonostante tutti gli eventi degli ultimi otto decenni, la pace e il rifiuto della guerra continuano a rappresentare la realtà distintiva accettata da entrambe le parti. I discorsi americani o - se preferisce - occidentali sulla “quasi inevitabilità” della guerra tra la Cina continentale e Taiwan riflettono la continuazione della stessa linea di pensiero e del tentativo di coinvolgimento nel cambiamento politico all’interno della Cina messo in atto dagli anni Trenta fino al 1949, quando il partito comunista cinese ha prevalso sulla Cina continentale e i nazionalisti del Kuomintang hanno assunto il governo di Taiwan. Oggi l’impegno americano-occidentale a sostegno dell’indipendenza di Taiwan costituisce una violazione dell’ordine internazionale basato su regole formatosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale e sostenuto dalle norme e dalle procedure del sistema delle Nazioni unite.

Lei ha criticato le élite statunitensi che sostengono che la Cina – come altre grandi nazioni – insegua ricchezza, potere ed espansione militare. Se non è questo ciò che vuole, quali sono allora le intenzioni della Cina di Xi Jinping?
Le conclusioni sulle intenzioni strategiche, sugli scopi ultimi di un paese vengono riflesse come in uno specchio. C’è poco, o nulla, che può essere considerato “basato su fatti” quando si valutano le proprie o quelle degli altri paesi. Il contatto, la comunicazione e l’impegno per evitare i conflitti sono un percorso più saggio da seguire.

Recentemente ha incontrato Henry Kissinger negli Stati Uniti. Di cosa ritiene che gli americani siano maggiormente preoccupati nel complesso delle loro relazioni bilaterali con la Cina?
Una sufficiente comprensione delle parole di Kissinger richiede una conoscenza complessiva delle sue opere e della sua storia che a me manca. Ma ho capito che Kissinger – che è lucido, aggiornato e il cui pensiero è articolato come quello di persone molto più giovani di lui – pensa che sia necessario un maggiore apprezzamento, da entrambe le parti, dell’evoluzione dei contesti interni – non solo politici ma, soprattutto, sociali – che hanno prodotto le attuali posizioni maintsream sulla relazione bilaterale. Ho imparato molto dalla sua saggezza.

Cosa intende quando sostiene che, nel valutare la relazione bilaterale, non bisogna perdere di vista l’attuale convergenza tra l’approccio cinese e statunitense alla governance?
A due anni dall’insediamento dell’amministrazione Biden – con molti dei motivi alla base di questa svolta evidenziati già dall’amministrazione Trump – negli Stati Uniti è saldamente in atto la politica industriale. Si potrebbe concludere che oggi gli Stati Uniti praticano una loro versione della “doppia circolazione” (la politica industriale di Xi Jinping che scommette sulla crescita trainata dal governo e dal mercato interno, ndr) se non fosse che questa strategia, principalmente per ragioni politiche, è spesso associata specificamente al pensiero politico cinese.

Eppure i due governi hanno un obiettivo comune, quello di promuovere un’industrializzazione robusta delle rispettive società. L’effetto netto è positivo, poiché il mondo intero trarrà vantaggio dalla ricerca dell’innovazione da parte sia statunitense che cinese, non solo nel settore hi-tech. Questi due grandi paesi stanno investendo in tali sforzi per tutti. E dal momento che il commercio e gli investimenti sono fattori chiave della crescita economica, altri paesi trarranno vantaggio dai progressi tecnologici e gestionali di Stati Uniti e Cina.

Lei è convinto che gli Stati Uniti non siano in declino. La sua persuasione è condivisa dalla leadership del partito comunista cinese?
Posso parlare solo per me. È naturale che voci diverse competano per ottenere attenzione e riconoscimento (da parte dei politici, ndr). Ciò si verifica anche in Cina. Quello che aggiungerei è che gli studiosi di entrambe le parti devono compiere uno sforzo maggiore per distinguere la retorica della “ascesa” o del “declino” (riguardo a sé stessi e/o qualsiasi altro paese) ed evitare di scambiare per “fatti” ciò che in realtà è consulenza politica interna, o di intenderla come qualcosa da cui trarre vantaggio.

Fino a qualche anno fa in Europa si guardava con interesse e una certa simpatia alla nuova via della seta (Bri) e al processo di modernizzazione della Cina che però, in seguito, è stato percepito sempre più come una “minaccia”. Quali sono i motivi di questo cambiamento?
Una “iniziativa” presentata da qualsiasi governo rappresenta un invito aperto. La spinta della Belt and Road Initiative è di contribuire agli sforzi in tutto il mondo – con o senza iniziative simili da altre parti – per affrontare le continue sfide alla crescita economica e allo sviluppo umano, in particolare ma non esclusivamente in altri paesi a medio e basso reddito.

Le prospettive europee sulla Bri sono comprensibilmente e perfino giustamente eurocentriche. Il nocciolo della questione è che, anche se giudicato esclusivamente dalle preoccupazioni europee per l’afflusso non regolamentato di migranti dai paesi più poveri al di fuori della sua unione, l’attrazione e la partecipazione alla Bri da parte di altri paesi a medio e basso reddito, non costituisce affatto un’erosione del benessere degli europei, anche se ciò non è tangibile. L’Europa ha messo a punto le proprie iniziative globali di sviluppo, che in alcuni casi sono presentate come una forza contraria alla Bri. Ma il vantaggio netto sarà il miglioramento del benessere economico e sociale nei paesi che vi partecipano. E quando un paese parteciperà sia alle iniziative europee sia a quelle cinesi, avremo una somma positiva.

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