Il coraggio del negoziato, il coraggio della resa. La richiesta rivolta all’Ucraina da papa Francesco di compiere il primo passo per aprire trattative di pace con il Cremlino, ha prodotto in prima istanza un isolamento diplomatico della Santa Sede a livello europeo.

E non solo perché il governo Zelensky ha convocato lunedì il nunzio apostolico a Kiev per certificargli lo sconcerto e le proteste delle autorità ucraine per le parole pronunciate da Francesco, ma anche per la presa di posizione critica nei confronti di Bergoglio di vari governi europei, a cominciare dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, fra l’altro in visita dal pontefice solo pochi giorni fa e considerato un sostenitore leale dell’Ucraina ma non troppo propenso a proseguire il conflitto a oltranza.

Tuttavia Scholz, ha detto lunedì a Berlino rispondendo ai giornalisti: «Per quanto riguarda la guerra di aggressione russa contro l'Ucraina, la posizione della Germania è molto chiara»: Kiev «ha il diritto di difendersi e può contare sul nostro sostegno in tal senso, con molte opzioni»; il cancelliere rispondeva a una domanda su quale fosse la sua reazione «alle affermazioni del papa».

A scanso di equivoci Scholz ha quindi aggiunto: «Siamo in prima linea per quanto riguarda la portata e la qualità delle forniture di armi che diamo. Questo è anche giusto ed è per questo che, naturalmente, non sono d'accordo con la posizione citata».

Resta il fatto – e qui sta almeno in parte lo scalpore determinato dall’intervento di Francesco – che nessuno in Europa o negli Usa (alle prese con la sfida fra Biden e Trump per la Casa Bianca), è oggi in grado di prevedere la durata del conflitto, i suoi costi e soprattutto quale sia il punto d’arrivo: se la riconquista dell’intero territorio ucraino, compresa la Crimea, se lo status quo che vigeva fino al febbraio del 2022 quando prese il via l’invasione russa, o se sarà invece necessario contrattare con Mosca nuovi confini cedendo pezzi di territorio, magari anche più simbolici che sostanziali.

In tutto questo l’auspicata caduta del regime di Putin sembra ancora di là da venire.

L’aggiustamento di Parolin

In ogni caso, con un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha provato a mettere una toppa alle parole del papa che aveva citato solo l’Ucraina nella sua intervista alla tv svizzera tralasciando le responsabilità russe. Il diplomatico vaticano ha ricordato che l’appello del pontefice affinché si creino le condizioni per una soluzione negoziale del conflitto, si rivolge a entrambe le parti in lotta, «e la prima condizione mi pare sia proprio quella di mettere fine all’aggressione».

«Non bisogna mai dimenticare il contesto - ha aggiunto - e, in questo caso, la domanda che è stata rivolta al Papa, il quale, in risposta, ha parlato del negoziato e, in particolare, del coraggio del negoziato, che non è mai una resa. La Santa Sede persegue questa linea e continua a chiedere il “cessate il fuoco” — e a cessare il fuoco dovrebbero essere innanzitutto gli aggressori — e quindi l’apertura di trattative. Il Santo Padre spiega che negoziare non è debolezza, ma è forza, non è resa, ma è coraggio».

Messa così la questione assume già un altro significato; e del resto fin dal principio della guerra è emersa una certa differenza di sensibilità e toni fra la Segreteria di Stato e il papa, differenza che è sembrata andare oltre l’inevitabile equilibrio di ruoli e funzioni.

Tuttavia se formalmente le precisazioni di Parolin sono state ben accolte a livello diplomatico, questa volta sembra che le parole di Bergoglio abbiano assunto un peso specifico definitivo sul reale pensiero della Santa Sede in merito al conflitto in corso, anche per il frangente delicato dal punto di vista delle prospettive della guerra, in cui sono cadute.

Tentativo al tramonto

In questo senso, sembra tra l’altro subire un colpo quasi definitivo anche la missione di pace affidata da Francesco a Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani. Zuppi si era mosso con una certa intraprendenza nei mesi scorsi fra Kiev e Mosca, Washington e Pechino; non era però riuscito a strappare risultati concreti sul fronte di una possibile mediazione rispetto al conflitto.

Pareva invece che sul versante umanitario si potessero ottenere dei passi avanti come preludio all’avvio di un successivo dialogo fra Kiev e Mosca nel quale forse anche la Santa Sede avrebbe potuto giocare un ruolo. In particolare il Vaticano poteva spendersi per la sorte dei bambini portati via alle loro famiglie dall’esercito russo.

Si tratta almeno di alcune decine di migliaia di bambini e adolescenti deportati in Russia per essere ‘rieducati’; per questa ragione fra l’altro è stato spiccato un mandato di cattura dalla corte penale internazionale nei confronti di Putin e di Maria Lvova-Belova, la commissaria russa per i diritti dei bambini.

La speranza era appunto che la neutralità concepita dal papa per tenere aperta una linea di collegamento con Mosca, potesse agevolare la trattativa almeno su questo punto, ma fino ad ora non sembra essere accaduto niente di significativo. Non va dimenticato, del resto, che la russificazione dei territori posti sotto il proprio controllo militare, fa parte della politica di Mosca rispetto all’Ucraina. Lo spazio diplomatico della Santa Sede si è dunque ulteriormente ristretto?

Difficile dare una risposta definitiva in uno scenario tanto complesso, tuttavia se qualche cardinale tesse la tela e poi il papa la disfa – sia pure per dare un segno di apertura in una situazione che appare fin troppo chiusa – tutto diventa estremamente complicato.

Certo, una visita del papa in Ucraina, dove è stato ripetutamente invitato ad andare anche in queste dalle autorità civili e religiose del paese, cambierebbe radicalmente le cose.

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