Se in Brasile definisci “genocida” il presidente Jair Bolsonaro ti può arrivare in casa la polizia. Come è successo qualche giorno fa allo youtuber 32enne Felipe Neto. La denuncia è partita da Carlos Bolsonaro, il secondogenito, colui che secondo un’inchiesta della magistratura è al vertice dello squadrismo digitale a favore del padre, usando i computer della stessa presidenza della Repubblica, a Brasilia. Felipe Neto invece ha tredici milioni e mezzo di followers, e pur non manifestando particolari doti artistiche o intellettuali, quel che dice ha un peso. Per chi è uscito dalle catacombe della politica soltanto grazie ai social – cioè Bolsonaro e figli – un video virale colpisce più di qualunque articolo o reportage tv. Da cui l’intervento intimidatorio contro l’autore, riesumando una legge dell’epoca della dittatura militare. Tempo tre giorni di polemiche e una giudice di Rio de Janeiro, Gisele Guida, ha archiviato il tutto. L’influencer non dovrà più presentarsi a deporre per attentato alla sicurezza nazionale, e spiegare perché ha chiamato genocida il presidente, e a Bolsonaro figlio ha risposto con l’equivalente di una pernacchia: un balletto in video e un bacetto, alla Salvini.

La vicenda di Felipe Neto, altri casi analoghi e tutte le reazioni che ne sono seguite hanno aperto in Brasile due dibattiti paralleli. Si può considerare genocida un governante che con il suo negazionismo è responsabile di una parte dei quasi 300mila morti per Covid-19 nel suo paese? E se costui risponde per le spicce – come quei dittatori di un tempo che tanto stima e rimpiange – è un segnale che il Brasile sta entrando nel novero dei paesi autoritari borderline, nel fascismo del terzo millennio? L’editorialista del giornale Folha de São Paulo Mariliz Pereira Jorge ha fatto un test. Il giorno dopo la denuncia allo youtuber ha occupato tutto il suo spazio settimanale con ben 193 epiteti rivolti a Bolsonaro, cominciando con «ignobile», passando per «fascista» e terminando, appunto, con genocida.

Solo parole, separate da virgole. «Non è una raffica di insulti, ma una forma di disobbedienza civile, per riaffermare i diritti di espressione garantiti dalla costituzione – spiega la giornalista – E sono sicura che di parecchie parole Bolsonaro non ne conosce nemmeno il significato». Il vignettista Zé Dassilva ha lanciato una sfida analoga, disegnando un rebus che compone la parola incriminata, “genocida”. Il suo giornale, Diario Catarinense, copre uno stato del sud falcidiato dal Covid ma tuttora di solida fede bolsonarista. Ha ricevuto un migliaio di commenti quasi equamente distribuiti tra approvazioni e insulti, alcuni seguiti da minacce. «Ma è così tutti i giorni.

Se dovessi preoccuparmene, mi toccherebbe aprire un settore giuridico apposito», scherza. Così va il Brasile dell’odio polarizzato pro e contro Bolsonaro. L’idea di resuscitare la legge per la sicurezza nazionale, roba degli anni Sessanta, è del ministero della Giustizia. Con la stessa scusa, la polizia ha fermato cinque manifestanti che stavano esponendo uno striscione “Bolsonaro genocida” davanti ai palazzi del potere a Brasilia. E ci sono altri casi contro intellettuali e avvocati. Secondo il giurista Conrado Mendes, il Brasile è prossimo a uno “stato di intimidazione”. L’obiettivo è creare un clima di paura e autocensura, aggiunge, una forma di repressione preventiva. Come si è visto in altri paesi negli ultimi decenni, dal Venezuela alla Turchia, dall’Ungheria alla Russia.

La denuncia all’Aia

Anche se otto brasiliani su dieci, secondo un sondaggio, ritengono che la pandemia sia totalmente fuori controllo, è assai probabile che l’accusa di genocidio a Bolsonaro resterà solo una opinione. Difficilmente ci sarà una Norimberga del Covid-19, anche se qualcuno dal Brasile una denuncia al Tribunale dell’Aia sulle politiche di Bolsonaro l’ha già fatta.

O meglio sulle sue non politiche: la sottovalutazione reiterata dell’epidemia, il disprezzo per il distanziamento sociale e le mascherine, l’esaltazione di terapie preventive inutili, come la clorochina. E soprattutto, imperdonabile, il non aver negoziato i vaccini per tempo. Il prezzo che il Brasile sta pagando in questi giorni è feroce. Oltre 2mila morti al giorno in media, e quasi tutte le città con gli ospedali al collasso. Una quarto dei decessi al mondo sono qui. Si muore in fila per una terapia intensiva persino a San Paolo, la città più ricca e meglio organizzata. Le vaccinazioni vanno a rilento, e molti esperti pensano che il peggio debba ancora venire, con tutte le curve in rialzo. Giovedì è morto un terzo senatore di Covid-19 (e sono soltanto 81 nel Congresso), il bolsonarista critico Major Olimpio, e Brasilia sta entrando in ebollizione.

Bolsonaro ha nominato il quarto ministro della Salute. Insomma, lo sbando è totale. Di politiche genocide in atto in Brasile ha parlato persino un giudice della Corte suprema, Gilmar Mendes. Per il noto criminalista Antônio Carlos de Almeida Castro non c’è dubbio che Bolsonaro possa essere chiamato a risponderne in caso di impeachment. Ma al momento la messa in stato d’accusa resta improbabile, a causa degli equilibri politici al Congresso. La popolarità di Bolsonaro è scesa sotto al 30 per cento, smentendo però chi lo immaginava a questo punto totalmente travolto dagli effetti della pandemia, lutti a non finire e crisi economica.

Autoritarismo di fatto

La tentazione di dare una stretta alla libertà di espressione con una escalation autoritaria, invece, continua a stimolare i peggiori istinti dell’estrema destra al potere, la quale, sempre in questi giorni, è riuscita a ottenere da un giudice che l’esercito possa commemorare il prossimo anniversario del golpe del 1964. In un momento di incredibile comicità, Bolsonaro nella sua live settimanale ha letto l’articolo della Jorge, quello con i 193 epiteti, senza battere ciglio. Fermandosi solo sulla parola “ditador”. Con sguardo interrogativo. «È quello che l’ha colpito di più, essere definito un dittatore – nota la giornalista – Come se fosse il suo sogno impossibile...». Bolsonaro freme per stressare la democrazia in Brasile a limiti proibiti da decenni, verso un autoritarismo di fatto. Le intimidazioni sono quotidiane e non riguardano solo la libertà d’espressione. Secondo insider del palazzo non si è spinto oltre solo perché tenuto fermo dai consiglieri e dai numerosi militari dei quali si è circondato, più realisti. L’ultimo attacco riguarda ancora una volta la gestione della pandemia. Furioso perché i governatori e i sindaci stanno adottando chiusure e restrizioni, davanti alla crisi sanitaria totale nelle loro città, Bolsonaro ha deciso di ricorrere alla Corte suprema.

Sostiene che fermare l’economia va contro una legge federale approvata dal Congresso due anni fa e che vieta limitazioni alla libera iniziativa. E sulle limitazioni alla circolazione in determinati orari ha reagito dicendo che i governi locali non hanno «libertà di coprifuoco». «Questi ipocriti che parlano di dittatura non sanno che il terreno fertile per i dittatori sono esattamente la miseria, la fame, la povertà». Bolsonaro ha aggiunto che chi ha il potere di decretare lo stato di eccezione in Brasile è solo il presidente, cioè lui, e potrebbe arrivare a farlo «per garantire la libertà al popolo».

Dai giuristi è arrivata una risposta unanime: le due cose non hanno niente a che vedere, fermare la circolazione delle persone per ragioni sanitarie non è comparabile con la sospensione dei diritti individuali. La quale in democrazia è ammessa soltanto in caso di guerra. Quelle che possono sembrare follie, nella testa di Bolsonaro hanno un cinico e evidente scopo: scrollarsi di dosso la responsabilità del principale effetto collaterale della pandemia, e cioè la crisi economica, e gettarla tra le braccia dei governatori e dei sindaci. Per questo la parola proibita “genocida” è finita nel mirino delle sue squadracce digitali e dei solerti poliziotti che arrivano in casa per intimidire chi la usa.

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