Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


La Guardia di Finanza produsse un grande contributo che servì di base per le indagini, oltre a fornire utili consigli pratici che diedero i loro effetti. E se oggi la Gdf è partner abituale di molte procure, allora questo affiancamento si presentava come una strada tutta da percorrere e dava il via a un gioco di squadra che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a Cosa nostra.

In questa prospettiva, assicurarono il loro impegno e la loro professionalità funzionari come Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli (venuto a mancare il 20 marzo 2013 e al quale mi legava un forte rapporto di amicizia), Alessandro Pansa, tutti funzionari di pubblica sicurezza che nel tempo, uno dopo l’altro, sono stati nominati capi della Polizia. E ancora, l’allora capitano dell’Arma dei Carabinieri Angiolo Pellegrini (oggi generale di corpo d’armata in pensione, ma per me sempre “il capitano”, stretto collaboratore di Giovanni Falcone), che ho avuto il piacere di incontrare di nuovo dopo molti anni, nel 2018, in occasione del conferimento a entrambi del Premio internazionale Joe Petrosino.

Ora, a distanza di tantissimo tempo, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato in Italia e all’estero, avendo segnato una svolta epocale, delineato uno spartiacque definitivo rispetto ai precedenti sistemi di indagine in uso nel contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Visti dall’esterno, noi giudici del pool potevamo sembrare quattro matti, dalla mattina alla sera chiusi in un ufficio blindato... e forse un po’ matti lo eravamo davvero. Ma lì nel “bunkerino”, se non altro, ti sentivi un po’ più al sicuro rispetto a quando andavi in giro.

Ci occupavamo di mafia, delitti, droga, ci toccava interrogare criminali incalliti certamente non bene disposti nei nostri confronti. Per la verità, non lo erano neppure alcuni colleghi e qualche rappresentante della cosiddetta società civile, ma di questo vi dirò più avanti.

Insomma non un bel vivere e soprattutto con poco spazio per qualche intermezzo spensierato. Eppure, certamente anche per il clima di tensione nel quale eravamo immersi, i nostri rapporti personali divennero sempre più stretti e i colleghi diventarono amici.

A volte andavamo anche fuori a cena con le mogli in un ristorante che oggi non credo ci sia più, dalle parti di viale Michelangelo a Palermo.

Erano poche le serate dove ci lasciavamo andare, dove ci sentivamo davvero rilassati. Ne ricordo una in particolare: tutti seduti al tavolo, a me e ad altri sembrò che qualcosa si fosse posato sui capelli. Pensavamo si trattasse di una mosca o di un pezzettino di intonaco che si fosse staccato dal soffitto, ma guardandoci attorno cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, farne delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi.

Come degli adolescenti alla cena di fine anno scolastico, reagimmo con prontezza a quell’attacco proditorio e ne nacque una battaglia senza esclusione di... molliche, con conseguente vergogna finale quando ci rendemmo conto di averne lasciato sul campo un tappeto. Non so cosa abbia pensato il proprietario del ristorante, che magari all’inizio era pure contento di avere quel gruppo di magistrati nel suo locale.

Con Giovanni condividevo poi una grande passione per le penne stilografiche, quelle che si caricavano con l’inchiostro che, come mi è accaduto più volte, finiva con il tracimare dal contenitore con immaginabili, disastrose conseguenze. Un effetto devastante che si era verificato in misura particolarmente amplificata nel corso di una delle trasferte di lavoro. Portavamo nella tasca le nostre penne stilografiche (allora si usavano) e una volta in aereo, per un problema di depressurizzazione, la sua e la mia scoppiarono, inondando di inchiostro giacche, camicie e cravatte. Non era possibile cambiare gli indumenti inchiostrati perché non potevamo accedere alle valigie custodite in stiva ma, per fortuna, eravamo in inverno e, scesi a terra, ci imbacuccammo nei cappotti per nascondere il disastro.

Quando avevamo un po’ di tempo libero, andavamo da Bellotti De Magistris, all’epoca la bottega più fornita di Palermo, per visionare i nuovi arrivi di stilografiche, sui quali ci teneva puntualmente informati il titolare del negozio. Giovanni aveva maggiori disponibilità economiche, e quando comprava una penna il cui costo era fuori dalla mia portata ne faceva sfoggio con me. Ricordo che

un giorno mi chiamò nel suo ufficio. Lo trovai che stava facendo finta di scrivere con una penna stilografica che – notai subito – doveva essere stato il suo più recente, costoso acquisto. Immaginai dove intendesse andare a parare e gli sedetti di fronte senza parlare, non volevo dargli soddisfazione, finché fu Giovanni a chiedere: “Ma tu non vedi niente di nuovo, non mi devi dire niente?” Io risposi: “Veramente sei tu che mi hai fatto venire nel tuo ufficio, cosa devi dirmi?” E lui: “Non vedi che sto scrivendo con una nuova penna? Ti piace?” E io di rimando: “Una penna nuova? Non me n’ero accorto, mi sembrava una di quelle che comprammo assieme”. Gli avevo rovinato la sceneggiata, me ne disse di tutti i colori e alla fine ci mettemmo a ridere come due ragazzini.

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