Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Certo, tra noi colleghi gli scherzi non mancavano. Anche perché, è inutile negare, la paura di un attentato ‒ e quindi della morte ‒ è stata una nostra assidua compagna per tutti quegli anni, mentre intorno a noi cadevano altri fedeli servitori dello Stato.

Per alcuni, come per Giovanni Falcone, la minaccia era più pressante, tanto che lui era molto attento alla sua sicurezza. Ricordo che, una volta, un giovane carabiniere appena assegnato alla sua scorta gli chiese se poteva aiutarlo a portare la borsa che teneva sempre con sé. Un normale gesto di gentilezza. Giovanni gli porse la borsa e gli disse: «E se adesso arriva qualcuno che tenta di aggredirmi, tu che fai? Gli chiedi di darti il tempo di impugnare la pistola? Come fai a proteggermi se tieni la mia borsa in mano? Tu devi avere entrambe le mani libere».

D’altronde Giovanni era da tempo nel mirino di Cosa nostra. A lui che si era precipitato sul luogo dell’agguato al giudice Gaetano Costa, un collega disse: «Pensa un po’, ero proprio sicuro sarebbe toccata a te». Era il 6 agosto 1980.

Dopo l’omicidio di Costa, procuratore capo a Palermo, gli atti delle sue indagini vennero trasmessi all’Ufficio di Istruzione e l’inchiesta fu assegnata a Falcone, subito sottoposto a un servizio di scorta con tre volanti della Polizia.

Tutti eravamo consapevoli del grave pericolo che incombeva, si percepiva nell’aria.

Nei mesi successivi Giovanni Falcone diventò il magistrato più scortato d’Italia.

Due agenti con giubbotto antiproiettile lo precedevano quando entrava nella sua stanza, con altri tre dietro; un elicottero si alzava in volo quando doveva spostarsi e ancora altri due uomini erano di guardia dietro la porta di casa sua. Giovanni sosteneva che tutti dovevamo essere prudenti. Redarguiva il collega che non aveva compreso i pericoli a cui andava incontro con le sue indagini solitarie, o che ancora non aveva capito che il ruolo che avrebbe dovuto assumere rappresentava una minaccia per gli uomini di Cosa nostra, o che avesse deciso di andare in vacanza proprio in mezzo ai mafiosi. Quest’ultimo era il mio caso.

Nell’estate del 1986 o 1987, adesso non rammento con precisione, mi accordai per prendere in affitto una bella villa in territorio di San Nicola l’Arena, borgata marinara di Trabia, a pochi passi dal mare, e mi scappò di parlarne con Giovanni. Non l’avessi mai fatto! O forse è stato meglio così: mi aggredì dandomi dell’incosciente, ricordandomi, se me ne fossi dimenticato, che quella era una zona ad alta densità mafiosa, che la posizione della casa, che gli avevo descritto, avrebbe consentito un attentato sia dalla terraferma sia dal mare, e ingiungendomi, alla fine, di lasciare perdere.

In effetti, Giovanni aveva ragione di preoccuparsi per la mia incolumità, perché la zona in cui avrei dovuto trascorrere la vacanza è la stessa in cui, nel 1989, avvenne una mattanza di “uomini d’onore” cui facevano riferimento gli anonimi del cosiddetto “corvo”, dei quali mi occuperò più avanti.

Ma purtroppo Giovanni non pensò abbastanza alla sua incolumità quando, sempre in quel 1989, prese in affitto la nota villa sul mare all’Addaura, posizionata come quella in cui avevo deciso di trascorrere l’estate un paio di anni prima, in una zona ad alta densità mafiosa.

Una villa dove sarebbe stato possibile progettare un attentato dinamitardo ai suoi danni, come in effetti accadde, fortunatamente senza esito. Almeno in quella occasione.

Come accennavo, sulla morte si scherzava anche per allontanarne il pensiero. Quando noi giudici istruttori ancora occupavamo i locali al piano rialzato del Tribunale, un giorno il consigliere Rocco Chinnici, nel corso di una riunione, quasi a esorcizzare il pericolo che già incombeva sul pool, così ci rassicurò, tra il serio e il faceto: «Ragazzi, vi ho reso immortali; ho fatto montare vetri antiproiettile sulle finestre delle vostre stanze e così non correrete più alcun pericolo».

Falcone e Borsellino si divertivano invece a scriversi a vicenda i necrologi. Paolo diceva: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissimo, c’è il più te- sta di minchia di tutti. Uno che si era messo in testa, niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».

E poi c’è una scena nel film di Giuseppe Ferrara “Giovanni Falcone”... Un film che fotografa con molto realismo il nostro lavoro, perché l’autrice della sceneggiatura, Armenia Balducci, ebbe più volte a contattarmi, a nome del regista, per apprendere come e dove operavamo (anche se poi, in alcune scene, mi inquadrano mentre fumo, e io, ripeto, non ho mai toccato una sigaretta). Dicevo, c’è una scena in cui Paolo e Giovanni scherzano sulla loro morte, finché uno dei due sbotta: «Ma se ammazzano prima Guarnotta!»

Anche alla Questura di Palermo, allora chiamata «l’avamposto delle ombre perdute», Ninni Cassarà e Francesco Accordino, capo della sezione investigativa il primo e dirigente della sezione omicidi della Squadra mobile il secondo, passando davanti alla lapide che all’ingresso ricordava i poliziotti caduti in servizio, spesso scherzavano sulla propria fine, osservando che i loro nomi ci sarebbero stati bene lì, sulla lapide dei caduti.

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