Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Passate per Messina e guardate questa città, le strade ampie, i palazzi bene allineati, i vigili urbani composti e malinconici, i lunghi filari di alberi, la gente che cammina senza fretta, parlando con educazione, le navi che passano candide in mezzo allo Stretto.

Spesso vi sorprendete a scoprire che Messina è una magnifica città, vi ricorda chi sa quali altre immagini o nostalgie di luoghi visti o desiderati (quelle placide prospettive, quella atmosfera quasi lacustre di cose che stanno immobili al loro posto, la gente, i palazzi, le navi, le montagne) di cose fatte senza entusiasmi ma con calma, di riposi, di contemplazioni sul sedile di una riviera.

E vi sorprendete tuttavia a pensare che Messina è una bella città nella quale però non vorreste abitare per sempre. In effetti Messina è una città che sta morendo. Muore lentamente, perché non riesce a trarre da vivere da nessuna parte.

Per non morire aspetta il ventisette d’ogni mese poiché è il giorno in cui si pagano gli stipendi. Aspetta come l’ammalato, i cui globuli rossi lentamente se ne vanno in acqua, aspetta il giorno della trasfusione del sangue: allora l’occhio improvvisamente gli si ravviva, si muove più in fretta, comincia a sperare di nuovo, a chiedere febbrilmente notizie della sua salute, riesce persino a ridere e fare programmi.

Il giorno ventisette arrivano gli stipendi! Novecento milioni per i quattromila e trecento impiegati comunali, trecento milioni per i dipendenti della Provincia, tre, quattro, cinque miliardi per gli impiegati delle ferrovie, delle navi traghetto, degli istituti bancari, della Marina militare, degli ufficiali e sottufficiali di presidio, dei carabinieri, della guardia di finanza, per i professori ed i maestri delle scuole.

Le banche danno i soldi agli enti pubblici; gli enti pagano gli stipendi agli impiegati; gli impiegati pagano i fornitori, i commercianti, i negozi di abbigliamento, il macellaio, il droghiere, i quali a loro volta pagano le loro tratte e possono acquistare altra merce all’ingrosso.

L’economia messinese non vive quasi d’altro. Non c’è un entroterra agricolo che sopporti il peso maggiore dell’economia e ne riassetti continuamente i travagli, le stravaganze e il deficit, che immetta nuovi capitali ogni mese; l’industria conta poche migliaia di dipendenti, diciamo che vale per un centesimo di tutta l’economia cittadina; il turismo è solo un affare di transito, i traghetti sbarcano treni e carovane di auto gremiti di gente trafelata, curiosa, impaziente, che a malapena sosta una notte, o un quarto d’ora soltanto, il tempo di prendere un caffè, farsi indicare la strada, e subito si disperde altrove.

Ci sono città apparentemente più povere di Messina ed infinitamente meno vistose, ancora governate da una struttura sociale vecchia di cinquant’anni. Mettiamo Agrigento o Caltanissetta. Non hanno industrie, hanno solo le briciole del turismo, ma dietro la grigia facciata della burocrazia provinciale ci sono decine di migliaia di contadini, di piccoli coltivatori, di agricoltori, magari di miserabili braccianti che però portano soldi al centro urbano, il ricavato dei raccolti, i salari della settimana; un flusso di piccole lire sudate, litigate, strappate, sospirate, ma costante e solido.

A Messina, di concreto, massiccio, esiste soprattutto il ventisette. Se il Comune tarda a pagare lo stipendio ai suoi quasi cinquemila dipendenti, tutta l’economia della città comincia a tremare. Centinaia di piccoli commercianti, fornitori, bottegai, operatori economici telefonano di ora in ora al Comune per chiedere febbrilmente, per informarsi, protestare, implorare.

In realtà Messina è un enorme organismo che riceve, consuma, distrugge, ma non produce. Esattamente come un grande ammalato che giaccia spossato e abbia tutte le attività ed i bisogni vitali della gente sana, ma non può produrre che cose accessorie, minuscole; ricama, fa i solitari, aggiusta gli orologi di famiglia, legge, discute con fervore, e accuratamente amministra se stesso.

Come tutti gli ammalati, che sono ammalati da troppo tempo, ha una sorta di rassegnazione al suo stato, non ne concepisce un altro diverso, la guarigione è un mito lontanissimo, irraggiungibile oramai, quasi irrazionale, fuori dell’ordine naturale delle cose.

L’ammalato cerca solo di sopravvivere, lo pretende, e se gli accade (e gli accade ogni giorno) di sentir parlare di una cura definitiva, un’operazione audacissima che potrà guarirlo, accetta la discussione, ma come un sofisma. Dentro di lui però c’è solo l’ironico gusto di sentir parlare di se stesso e quindi sentirsi vivo. Ma la sua speranza è sepolta.

Basta guardarla, per capire Messina, stendersela dinnanzi questa grande città gloriosa, continuamente violentata, ed ora candida, ingenua, indifesa.

Sessant’anni or sono il terremoto la distrusse dalle fondamenta; sopravvisse solo metà della popolazione, ma di costoro molti ebbero paura a restarci e se ne andarono come profughi.

Rimasero in quaranta o cinquantamila; al posto dei morti o degli esuli vennero i soccorritori, la gente delle campagne che finalmente trovava spazio nella città deserta e sperava di cambiare la sua condizione umana, vennero i funzionari, i tecnici, gli operai per ricostruire la città, i fornitori e i piccoli commercianti per dar da vivere a costoro, i maestri elementari, i carabinieri, i ferrovieri, i soldati.

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