Nella notte del 18 marzo del 2020, un corteo di autocarri militari attraversava le strade deserte di Bergamo, trasportando decine di bare di donne e uomini morti di Covid-19. Un numero di decessi mai visto prima si era abbattuto sul capoluogo e sui comuni delle valli limitrofe: troppi per i servizi funebri, troppi per i crematori dei cimiteri. In seguito, i dati hanno certificato che nel mese di marzo, in Lombardia, si è avuto un aumento di mortalità del 192% rispetto alla media per lo stesso periodo degli anni precedenti.

La notte del lugubre corteo, un giovane steward della compagnia aerea RyanAir fece una foto dalla sua finestra ai mezzi che sfilavano tra i palazzi. La storia l’ha raccontata alcuni mesi fa Davide Maria De Luca su questo giornale: l’autore dello scatto «ricorda che quando vide i camion scortati dai carabinieri la prima cosa a cui pensò fu che finalmente in città erano arrivati i rinforzi ad aiutare gli ospedali cittadini. L’illusione fu breve. In quei minuti, l’agenzia Ansa diffuse la notizia che un convoglio di mezzi militari carichi di bare stava attraversando la città».

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L’immagine fece il giro del mondo in una notte, e divenne il simbolo della sofferenza senza precedenti che Bergamo e l’Italia intera stavano affrontando. Non per caso, proprio la data del 18 marzo è stata scelta dal testo unificato approvato dal Parlamento per istituire la «Giornata nazionale in memoria di tutte le vittime dell’epidemia da coronavirus». Vittime che nel frattempo hanno superato il numero di 100 mila.

La ricorrenza, a un anno di distanza da quando tutto è iniziato, può avere il compito non solo di commemorare chi non c’è più – con un atto pubblico di cui si è avvertita forte la mancanza –, ma anche di costruire senso e favorire l’elaborazione delle ferite che ci affliggono come collettività. Cade, però, in un momento in cui, con i lockdown, le scuole chiuse e i vaccini che tardano, il sentimento dominante è di stanchezza, e la conta quotidiana dei morti è accolta in uno stato di crescente anestesia morale ed emotiva. Una Giornata di ricordo e di compianto sarà in grado di strapparci all’apatia in cui sembriamo essere precipitati? Saprà risvegliare la nostra consapevolezza di comunità in lutto, segnata dalla perdita, trafitta dal dolore?

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Il problema che viviamo, dinnanzi al dramma della pandemia, è quello che sempre affligge i singoli e i gruppi di fronte alle tragedie e alle sciagure che colpiscono “altri”, vicini o lontani. È sufficiente sapere che altri sono morti o sono in lutto per provare compassione o sdegno morale? O abbiamo bisogno di vedere la sofferenza per essere indotti a una reazione? E quanto forti, quanto sconcertanti devono essere le immagini del dramma perché facciano breccia nell’indifferenza e nella passività dello spettatore?

Su questioni simili si interrogava Susan Sontag nel saggio del 2003, Davanti al dolore degli altri, ora ripubblicato in italiano dalle edizioni Nottetempo. Richiamando fotografie celebri, come la morte di un miliziano repubblicano di Robert Capa, o i bambini vietnamiti bruciati dal napalm, l’autrice esamina il valore etico delle immagini di sofferenza. Nonostante il rischio di saturazione visiva, le testimonianze di atrocità sono ancora in grado di scioccare e ossessionare, di produrre indignazione o comprensione.

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Questo vale, però, per le sofferenze «imputabili all’ira, divina o umana». Come nota Sontag, «la sofferenza derivante da cause naturali, come il parto o la malattia, è poco rappresentata nella storia dell’arte». Ciò resta vero, a quanto pare, anche quando la malattia assume dimensioni di massa. L’anno che abbiamo alle spalle è stato catturato in immagini potenti di città deserte, dispositivi di protezione, mezzi e infrastrutture. Il racconto iconografico ha immortalato la lotta, solo raramente il declino dei corpi e la morte.

Questo ci pone di fronte a una sfida. Come scrive Sontag, «un evento diventa reale – agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto ‘notizia’ – perché viene fotografato». E il supporto fotografico si rivela essenziale ai fini della memoria. «La memoria ricorre al fermo immagine; la sua unità di base è l’immagine singola», perché «una fotografia è simile a una citazione, a una massima o a un proverbio». Nella pandemia, il fatto di disporre di immagini della lotta contro il virus ma non di immagini della morte, limita la nostra capacità di apprendere, di ricordare, e quindi di piangere coloro che non ci sono più?

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La foto dei camion militari è divenuta un simbolo della tragedia perché racconta la cruda realtà dei morti in eccesso, che non trovano posto nei cimiteri. Ma è probabile che la sua forza venga anche dall’evocazione dell’immaginario della guerra. Fin dal principio, l’emergenza pandemica è stata raccontata e descritta con ampio ricorso al linguaggio bellico: il nemico invisibile, gli ospedali come trincee, i medici come eroi delle prime linee. Metafore inappropriate, perché in guerra per sopravvivere si uccide, mentre qui la lotta è in difesa delle vite di tutti; perché la risposta alla malattia è la cura, che richiede solidarietà e giustizia, non l’odio che alimenta la guerra.

L’immagine scattata dal giovane steward a Bergamo è quindi potente, ma rischia di allontanare, anziché favorire, i processi collettivi di conoscenza, compassione e compianto. Come osserva ancora Sontag, si può voltare le spalle al dolore degli altri non solo perché si è saturi di immagini e notizie, non solo perché assuefatti, ma anche perché si prova paura, e impotenza. Se non possiamo tradurla in azione, dice, anche la compassione inaridisce, si spegne. «Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale ed emotiva, in realtà traboccano di sentimenti: ciò che si prova è rabbia e frustrazione».

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È questo che ci succede quando ci dicono che è in corso una guerra, ma noi non possiamo fare nulla per impedire che produca i suoi morti. Se invece al lessico della guerra si sostituisce quello della cura, l’immagine che ci sciocca o ci ossessiona può anche spronarci a fare la nostra parte – nel nostro piccolo, continuando a preoccuparci dei nostri comportamenti, ma anche pensando in grande, all’urgenza di trasformare la società. La lente della cura può, inoltre, favorire il processo collettivo di elaborazione del lutto, che è ostacolato dall’incapacità di riconoscere la vulnerabilità e l’interdipendenza che ci accomuna, di mettere a fuoco ciò che abbiamo perduto, e le ragioni per cui questo è avvenuto.

Solo così diventa possibile la memoria. A rigor di termini, scrive ancora Sontag, non esiste la «memoria collettiva», ma solo «l’istruzione collettiva». Quella che si definisce memoria collettiva non è tanto il risultato di un ricordo ma di un «patto», per cui «ci si accorda su ciò che è importante e su come sono andate le cose, utilizzando le fotografie per fissare gli eventi nella nostra mente». Non basterà per questo una sola Giornata. Può essere però un buon punto di partenza.

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