A Chipping Barnet, sobborgo di Londra dal verde intenso eppure sempre venato di autunno, si trova New Ground, la prima comunità di co-residenza britannica, composta di sole donne ultracinquantenni, da costoro creata e gestita in piena autonomia. Venticinque appartamenti privati si snodano attorno a un giardino comune.

Le donne si ripartiscono le incombenze quotidiane per squadre di volontarie: responsabili della manutenzione, della comunicazione, della pulizia, del giardinaggio e degli affari amministrativi e legali.
Il loro valore condiviso, quello nodale e fondativo, è che possono sentirsi tra loro interdipendenti: i bisogni, le precarietà e le debolezze di ciascuna possono contare sulla presenza e la perizia di ciascun’altra, in un sistema pianificato e durevole di suddivisione dei compiti.

In tal senso, New Ground affresca meglio di molte dottissime teorie lo spirito più profondo e vero del fenomeno chiamato “famiglia queer”: alcune persone (importa poco quante siano, e ancor meno la loro dotazione biologica) decidono di condividere una parte rilevante della loro vita e a tal fine si accordano sulla ripartizione orchestrata delle mansioni per meglio gestire il loro rapporto di reciproca dipendenza.

Le comunità intenzionali

Com’è ovvio, il termine “co-residenza” non è per sé stesso sinonimo di “queer”, là dove con queer s’intende significare tutte quelle forme di sessualità individuale e/o relazionale che sfidano le concezioni di sesso, genere e amore prevalenti in una data società. La co-residenza rientra piuttosto tra le cosiddette comunità intenzionali, vale a dire aggregazioni di persone che decidono di vivere insieme per la realizzazione di valori e obiettivi comuni.

“Intenzionali”, appunto, o “elettive”, se si gradisce una screziatura di lirismo, perché fondate su una precisa scelta di vita in comune, con la sequela di opportunità e di obblighi che una tale scelta implica. Le comunità intenzionali variano molto per struttura e finalità.

Alcune incentrano le loro dinamiche collettive sulla sostenibilità ambientale o sulla riqualificazione di spazi abbandonati, mentre altre si fondano su pratiche spirituali o religiose. Altre invece, quelle che qui più interessano, perseguono l’obiettivo, minimale quanto si vuole, di assicurare tra i loro membri compagnia e cura reciproche.

E proprio in questa chiave di istituzionalizzazione dei legami elettivi, alcuni stati europei, come ad esempio la Danimarca, la Svezia e l’Olanda, garantiscono alla co-residenza riconoscimento giuridico, col supporto di una legislazione dedicata. Sia chiaro: la motivazione di questi stati non si deve tanto a una sapiente volontà di promuovere alternative all’esistente, quanto al parassitismo tipico di un welfare state in dismissione.

Il loro obiettivo è incoraggiare forme di vita comunitaria per la costruzione di una solidarietà capace di rimediare ai limiti della vita in solitudine, dato che il singolo individuo gode oggi di un sostegno pressoché nullo da parte delle istituzioni.

Proprio in relazione a questa auto-interessata apertura dei governi, alcunə esponenti più radicali della teoria queer invocano una cinica accortezza nei confronti di una legislazione perlopiù volta a tagliare quanto più possibile il supporto socio-sanitario un tempo offerto alla cittadinanza.

Le istituzioni statali – questə studiosə sostengono – vogliono che le persone si aggreghino tra loro perché se la sbrighino da sole, dando vita a forme suppletive di solidarietà collettiva (ma pur sempre privata), che diano respiro alle casse dello stato.

Estendere l’immaginazione

Ammetto per mio conto di essere assai meno guardingo rispetto ai casi come New Ground. L’idea di istituzionalizzare il rapporto di interdipendenza tra persone che non intendono (necessariamente) condividere il letto, né intendono (necessariamente) mettere al mondo alcunə, rappresentano al meglio quelle pratiche di comunanza che sono il cuore della parentela queer.

Questi casi di solidarietà estesa dimostrano come il fenomeno delle famiglie non-convenzionali abbia poco a che fare con le battaglie sul sesso, sul genere o sulla veneranda istituzione della famiglia tradizionale.
New Ground, e altre comunità del genere, sono tentativi vivi e vitali di estendere l’immaginazione nostra e delle istituzioni per fare spazio a forme sociali future di vicinanza e dipendenza reciproca – forme altre, che integrino quelle esistenti, come la famiglia nucleare costituita da una coppia più la prole.

Questi collettivi organizzati illustrano come, assieme alla famiglia tradizionale, esistano molti e diversi modi di strutturare pratiche di solidarietà che garantiscano una vita sociale stabile e organizzata.

E insisto su “stabile e organizzata”, perché il senso ultimo del riconoscimento giuridico sta qui: almeno al momento, solo le istituzioni statali hanno il potere di stabilire come si rimedia quando quelle pratiche s’increspano e si disfano, oppure quando una delle parti disattende gli obblighi da esse generati.

Famiglia e società

Certo, riconoscere per legge modi alternativi di organizzare l’interdipendenza personale e la vita intima (sessuata o meno) un po’ logora quell’illusione collettiva, tutta moderna e tutta euro-americana, secondo cui senza la famiglia nucleare non c’è società.

Quindi, se è vero che la famiglia queer è innanzitutto un problema organizzativo, non dovrebbe sorprendere che gli alfieri della tradizione temano l’impatto simbolico del suo riconoscimento morale, in primo luogo, e giuridico poi.

Nondimeno, quando la più che legittima difesa dei valori tradizionali si associa all’assai meno legittima esclusione di ogni alternativa possibile, il pericolo maggiore è quello di un miope soffocamento delle energie sociali.

Probabilmente, come sa la conservazione più avveduta e meno reazionaria, il modo migliore di difendere la tradizione è proprio stabilizzare senza grida né strappi quanto sempre di nuovo la società produce nei propri interstizi, prima che queste innovazioni in pastoia diventino fiumi carsici pronti ad emergere in superficie, esondare e rompere gli argini.

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