L’idea di favorire, a parità di qualifiche, gli uomini alle donne nei concorsi per l’accesso al ruolo di dirigente scolastico rappresenta un abuso dello strumento delle azioni positive, strumento giustificabile solo quando è volto a contrastare forme di oppressione nei confronti degli appartenenti a gruppi socialmente svantaggiati.

Tale strumento, introdotto negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso per favorire l’accesso all’istruzione, al lavoro e ai luoghi decisionali dei membri di gruppi sfavoriti, può assumere forme diverse, alcune più discutibili di altre.
Si va dalle norme che prevedono che tra due candidati egualmente qualificati si debba preferire quello appartenente al gruppo più svantaggiato, fino alle norme che prevedono delle quote, posizioni riservate ai membri di alcuni gruppi sociali.

Se le norme che prevedono che a parità di qualifiche si debba preferire il candidato appartenente al gruppo più sfavorito appaiono compatibili con una logica meritocratica per la distribuzione delle opportunità lavorative – in quel caso, infatti, i candidati sono egualmente qualificati – le altre forme di azioni positive sono spesso criticate perché ritenute incompatibili con una distribuzione basata sul merito di tali opportunità.

Contro gli stereotipi

Le cose, in realtà, non stanno così.

Lungi dall’essere strumenti anti-meritocratici, le azioni positive possono favorire una distribuzione basata sul merito delle opportunità che si ritiene debbano essere distribuite secondo una logica meritocratica. Chi sostiene le azioni positive assume, infatti, che laddove i membri di certi gruppi sociali siano oggetto di stereotipi e pregiudizi che li rappresentano come poco “adatti” a certi ruoli, non vi siano le condizioni per una valutazione obiettiva delle loro qualifiche.

Non solo quegli stereotipi e quei pregiudizi possono inquinare i processi di selezione, anche senza che i selezionatori ne siano consapevoli, ma essi possono intervenire ancor prima, sulla formazione delle aspirazioni dei membri di quei gruppi, portandoli a non candidarsi per posizioni ritenute poco adatte a loro.

Le azioni positive possono contribuire a correggere i vizi dei processi di selezione, in attesa che stereotipi e pregiudizi vengano superati, contribuendo al tempo stesso al loro smantellamento.

Con l’aumento del numero di persone appartenenti a gruppi svantaggiati in posizioni un tempo riservate ai membri dei gruppi dominanti, infatti, la loro visibilità contribuisce alla messa in discussione degli stereotipi e dei pregiudizi nei confronti dei membri di quei gruppi.

Tra passato e futuro

Gli argomenti a favore delle azioni positive possono essere distinti in argomenti che guardano al passato, argomenti che guardano al presente e argomenti che guardano al futuro. Guardando al passato le azioni positive possono essere giustificate come forme di risarcimento per le ingiustizie subite in passato dai membri di certi gruppi.
Questo argomento appare, tuttavia, problematico nella misura in cui le persone beneficiate dalle azioni positive non sono le stesse che hanno subito l’ingiustizia storica.
Più convincente l’argomento che guarda al presente e giustifica le azioni positive come correttivi per gli effetti persistenti di stereotipi e pregiudizi e delle diseguaglianze sociali che si traducono in diseguali opportunità.
In questo caso, infatti, le persone che si ritiene verrebbero beneficiate dalle azioni positive sono le stesse che hanno subito – o potrebbero aver subito – degli svantaggi a causa di esistenti ingiustizie strutturali.
Infine, gli argomenti che guardano al futuro insistono sulla capacità delle azioni positive di scardinare pregiudizi e stereotipi, offrendo ai membri di gruppi sfavoriti la possibilità di mostrarsi all’altezza delle diverse posizioni e fornendo modelli positivi per i membri di quei gruppi.

Un altro argomento che guarda agli effetti delle azioni positive è quello che insiste sul valore della “diversità” di cui sarebbero portatori gli appartenenti a diversi gruppi sociali. Si tratta di un argomento insidioso, perché può facilmente assumere una declinazione essenzialista, che naturalizza le differenze.

È indubbiamente importante che i membri di gruppi sociali sfavoriti siano rappresentati in tutte le posizioni sociali e in particolare in quelle apicali di chi prende decisioni che hanno conseguenze per tutti, inclusi gli appartenenti a quei gruppi.
La ragione di ciò, tuttavia, non dipende dall’esistenza di differenze essenziali tra i membri di diversi gruppi – differenze che potrebbero giustificare disparità di trattamento –, bensì dal fatto che i membri di gruppi sfavoriti hanno esperienza diretta dell’oppressione: non, insomma, da una “sensibilità femminile”, ma dall’esperienza delle donne che vivono in società maschiliste.

Scardinare l’oppressione

Se si considerano gli argomenti migliori a favore delle azioni positive, ci si rende conto di come esse vadano intese come misure transitorie di contrasto all’oppressione e non come misure volte ad assicurare che in tutte le posizioni i membri dei diversi gruppi sociali siano rappresentati in misura proporzionale alla quota dell’intera popolazione che rappresentano.
La logica delle azioni positive non può essere una logica simmetrica. Il punto non è assicurare che donne e uomini siano egualmente rappresentati in ogni ruolo.
Il punto è scardinare i meccanismi alla base dell’oppressione delle donne.
Il fatto che gli appartenenti a un gruppo sociale siano sottorappresentati in certe posizioni è un campanello d’allarme, che invita a un’indagine sulle cause di tale sottorappresentazione, non necessariamente il sintomo di un’oppressione a danno dei membri di quel gruppo. I meccanismi di oppressione vanno identificati attraverso indagini di tipo culturale sull’immaginario diffuso e di tipo socioeconomico sulla distribuzione delle opportunità.

Il caso della scuola

Non vi è motivo di ritenere che il fatto che gli uomini siano sottorappresentati nella scuola – mentre, guarda caso, restano sovrarappresentati nell’università, in particolare nelle posizioni apicali – sia sintomo di un’ingiustizia strutturale a danno degli uomini, l’effetto di stereotipi e pregiudizi che li sfavorirebbero nell’accesso ai ruoli di docente o dirigente scolastico.
Se si vogliono individuare delle cause per quel fenomeno diverse dalla migliore preparazione delle donne che concorrono per quei ruoli, esse vanno individuate nelle migliori opportunità di conciliazione vita-lavoro che essi offrono, una preoccupazione ancora principalmente femminile, e nel diminuito prestigio delle professioni scolastiche e nella loro scarsa remunerazione, due fenomeni che in società maschiliste sempre accompagnano, come causa e come effetto, i processi di femminilizzazione delle professioni.
Il fatto che professioni sempre più socialmente squalificate e maltrattate – a dispetto della loro importanza – siano una riserva femminile è dunque semmai un sintomo della persistente oppressione delle donne, non di un’oppressione a danno degli uomini. E senza un’evidenza di oppressione, le azioni positive sono azioni discriminatorie prive di ogni giustificazione.

Ci si potrebbe chiedere, in conclusione, perché, volendo ristabilire un equilibrio tra i generi nella scuola, il governo abbia deciso di iniziare dalle posizioni dirigenziali. I dati disponibili ci dicono che lo squilibrio tra i generi riguarda anche il corpo docenti. Tale questione apre una prospettiva inquietante sulla proposta del governo.

E se attraverso la misura proposta si intendesse ripristinare l’ordine sociale per cui è bene che siano gli uomini a occupare le posizioni dirigenziali anche in uno dei pochi ambiti che sfugge a tale logica?
E se dietro a tale proposta fosse all’opera la convinzione che per ristabilire la disciplina all’interno delle aule scolastiche – che la cronaca rappresenta spesso come spazi sottratti a ogni autorità – serva un uomo (forte?) al comando? Se così fosse saremmo di fronte a un’autentica perversione delle azioni positive.

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