Se l’inverno è un unico, vastissimo spaziotempo infinito e indefinito, senza contorni, l’estate è invece fatta di luoghi precisi, e a quei luoghi è eternamente legata, fissata, non la sposti più. Quell’isola, quella spiaggia con quell’acqua verdeazzurra, quel sentiero al tramonto, quella terrazza sotto un cielo di stelle. E anche quelle strade di campagna dove la macchina s’è incagliata, quei borghi caldissimi di cui ricordi solo quell’orzata ghiacciata, e quelle tonnare abbandonate, quei porticcioli coi polpi appesi al sole. (So che, per molti di voi, le estati sono anche monti, valli, rifugi. Non vi comprendo, ma so che esistete).

L’estate come luogo precisissimo, e io ora sto scrivendo queste righe da uno di questi luoghi qui, un posto che non assomiglia a nessun altro, e a cui è legato un libro di culto, un posto che voglio tenere segreto perché l’estate è un luogo che deve tornare ad essere un poco misterioso, nell’epoca della geolocalizzazione continua, del comunicare dove siamo esattamente in ogni esatto momento – che tanto poi siamo tutti negli stessi posti. (Su un’isola greca da me amatissima vedo, quest’anno, stuoli di gente che me la rendono di colpo meno cara, o quantomeno usurpata – ma è anche colpa mia, di me che, all’epoca, mi sono geotaggato troppo). 

Mi è caro, soprattutto d’estate, un altro luogo, ci sono passato anche quest’anno alla fine di un luglio non più caldo com’era al principio: il clima preciso di quei luoghi precisi, il caldo feroce di Mozia e quello di Arles che quasi t’addormentava, le frustate pacifiche di San Francisco e quelle più lievi di San Diego, eccetera.

Un punto nella Maremma

Quell’altro luogo che mi è caro è un punto della Maremma diverso (di pochissimo) da quello che racconta Alberto Riva in Ultima estate a Roccamare, uscito da poco per Neri Pozza, libro bellissimo e libero che forse diventerà anch’esso di culto, chissà. 

La Maremma che da qualche tempo frequento e che mi è cara sta appena più dentro, il mare che ha di fronte è a un passo da quello di cui si legge in queste pagine ma lì pochi chilometri fanno un mondo. Ma c’è lo stesso clima, che è «un fatto straordinario»: «Il microclima eccezionale. Per cui, attorno magari piove a dirotto, e a Castiglione c’è il sole. C’è il maestrale, che comincia verso mezzogiorno, l’una e poi si placa la sera, allora arrivano le zanzare. Il mare è pulito e piove molto poco». A parlare è Pietro Citati, una delle tante voci interpellate o rievocate, come in una seduta spiritica, da Riva.

Dunque, il luogo. Quel luogo. Roccamare sta tra Punta Ala e Castiglione della Pescaia, è il punto in cui, a partire dagli anni Sessanta, si costituì una piccola comunità intellettuale, una Barbieland cineletteraria e brutalista progettata dall’architetto Ugo Miglietta. Ci finirono, chiamandosi l’un l’altro con la scommessa di diventare vicini di casa, il citato Citati (pardon), e Italo Calvino, Carlo Fruttero, Furio Scarpelli. Ci passarono quasi tutti i nomi che hanno prodotto quell’epoca, l’ovvio Franco Lucentini e Natalia Ginzburg, Cesare Garboli, Mario Tobino; e, idealmente, Fellini, Simenon, Cassola, l’appena pianto Kundera, tantissimi altri. 

Il racconto di Francesco Piccolo della nascita quasi gemellare di e Il gattopardo, usciti nell’annus mirabilis che è stato il 1963, è lo specchio di quello stesso ’63 cruciale pure in quell’altro mondo lì; un’annata che, riporta Riva nel suo romanzo-saggio, «fu pazzesca perché nel giro di pochi mesi uscirono La tregua, Il consiglio d’Egitto, Lessico famigliare, La cognizione del dolore, Lo scialle andaluso e Memorie di Adriano. Mai più capitata una raffica del genere!» (qui a parlare è invece Ernesto Ferrero). Altro inciampo ironicamente speculare della Storia, La bella confusione di Piccolo si apre con il quasi naufragio in cui rischiammo di perdere la doppia stella di quei due capolavori (Claudia Cardinale, Claudia anche nel film di Fellini e Angelica in quello di Visconti), e anche in Ultima estate a Roccamare c’è una gita in barca che rischia di finire malamente.

Ricorda Carlotta Fruttero, figlia di Carlo: «Al ritorno si era alzato il mare, il peschereccio arrancava, e forse ci siamo fermati al Giglio, era troppo lungo il tratto per tornare, settanta miglia nautiche. (…) Arriviamo al porto del Giglio con questo peschereccio capitanato da degli hippy e lì ormeggiate c’erano le barche vere, gente di Porto Ercole, romani, imprenditori, ricconi, che ci additavano come dei poveri scappati di casa, e in realtà su quel peschereccio c’erano Italo Calvino, Carlo Fruttero, Pietro Citati, Gianni Merlini, Piero Crommelynck, che era l’incisore di Picasso, e che veniva sempre a stare da noi! Cioè: il gotha della cultura italiana!». 

Momenti sospesi

L’estate, le estati, come luoghi, dunque, come tempo (tempi) sospeso, come incrocio, relazione, caos. L’estate dentro case da cui si entra e si esce di continuo, in cui si lavora moltissimo (Calvino letteralmente si appollaiava, come il suo barone rampante, nello studio arrangiato sopra il villino tra i pini), in cui si bisticcia e poi ci si ritrova sempre. L’estate senza turismo, ma come lunga propaggine della vita cittadina: sempre Citati riempiva la macchina (rigorosamente Citroën) dei libri di cui era pieno l’appartamento romano, e quando finiva di leggerli tornava indietro per fare un’altra scorta.

L’estate dell’amicizia, parola chiave di questo racconto culturale e generazionale, e anche degli amori, a volte solo amorazzi. Più su lungo il litorale toscano, in quella Versilia in cui anche il multi-ritratto di Riva fa tappa, si festeggiano quest’anno i quarant’anni di Sapore di mare. Era uscito nelle sale, quel capolavoro, il 17 febbraio del 1983, ma le celebrazioni giustamente culminano nella bella stagione che Carlo ed Enrico Vanzina hanno saputo fermare come pochissimi altri. Anche lì un luogo preciso, Forte dei Marmi (poi diventata Morte dei Marmi, nella spassosa demistificazione del local Fabio Genovesi), e un anno, il 1964, che altrettanto curiosamente s’avvicina al tempo di quelle altre estati. E anche lì, quella libertà che gli anni Sessanta, quelli di quando Carlo ed Enrico erano ragazzi, portavano inevitabilmente con sé. La libertà, anche, di sbagliare, di incasinarsi, di fallire, di rinunciare alla versione di noi stessi che avremmo realmente voluto essere. Celesti nostalgie che dureranno per sempre.

Non ritornano

Qualche anno più tardi, tra il 1969 e il 1971, ma sempre nel pieno degli anni d’oro di Roccamare, in un altro luogo che mi è molto caro da quand’ero bambino comincia un’altra estate. Quella di Michelangelo Antonioni e Monica Vitti a Costa Paradiso, selvaggio avamposto gallurese che guarda la Corsica. Stanno, i magnifici due della Notte e del Deserto rosso, in due igloo di cemento gemelli, l’architetto è Dante Bini, anche lui tra gli artefici della rivoluzione brutalista delle case di vacanza del Tirreno. Adesso una delle due cupole – la più grande, quella di lui (oggi si griderebbe: sessismo! patriarcato!), è abbandonata, e per questo instagrammabilissima; l’altra, quella di Monica, ristrutturata e data in pasto a turisti di passaggio. Un tempo ci villeggiavano Tonino Guerra, Macha Méril e Andrej Tarkovskij.

In un tempo, questo duemilaventitré qua, in cui il racconto dell’estate è fatto di overbooking Volotea, lanzichenecchi sul treno per la Puglia e toast divisi in due, ridateci quelle estati lì. Le estati di Fruttero che va al premio Campiello in espadrillas gialle e in cui si discute dei sogni di Fellini. Le estati in cui scoppia un incendio e Roger Moore, ospite inatteso nella Maremma degli scrittori e dei critici, spedisce tra le fiamme la sua controfigura, che si portava anche in vacanza (mentre Sergio Amidei, imperturbabile, continua a mangiare).

Le estati del postino di Citati che corre per le strade di polvere a consegnare lettere che forse nessuno aprirà mai. Le estati fatte di noia e di parole, di progetti e di fallimenti, di nuotate e di litigate, di amore e anche di morte: è lì, ci ricorda Riva nelle sue pagine struggentissime, che nell’85 Calvino viene stroncato da un ictus, mentre è seduto su una sdraio nella pineta che profuma di mare. Forse erano davvero le ultime, forse non le riavremo più, quelle estati lì.

© Riproduzione riservata