Gentile professor Bettini, mi è molto dispiaciuto leggere l’articolo Gli antichi e la cancel culture. Quando la stroncatura è ingiusta, perché per chi non avesse letto il mio pezzo uscito qualche giorno prima con il titolo (non mio) La cancel culture americana in Italia non si è affermata, sembra che io abbia scritto una recensione del suo libro, stroncandolo ingiustamente, senza neanche averlo letto e dipingendola come un «sacerdote della cultura classica che si assume il compito di proteggerla da attacchi che in realtà non esistono», o che ancora peggio la abbia accusata di liquidare la “cancel culture” con una sprezzante alzata di spalle, entrambe cose che non ho assolutamente fatto nelle poche righe che ho dedicato al suo libro nel mio articolo.

Il mio pezzo, che affronta diversi temi che mi stanno a cuore, tra cui la cancel culture ma non solo quella (metà dell’articolo è dedicato alla cultural appropriation) aveva come obiettivo generale quello di mettere in luce come moltissime delle questioni sollevate dai movimenti woke americani, tra cui anche quelli da lei così attentamente trattati nel suo saggio, come il decolonizing classics, arrivino in Italia sotto forma di minaccia concreta, e vengano presentati come fenomeni già esistenti contro i quali occorre correre ai ripari molto in fretta anche da noi.

Non era una stroncatura

Nella parte del mio articolo che mi ha meritato le accuse di superficiale non-lettrice, non stavo facendo una recensione al suo libro, ma specificavo come fosse per me difficile accettare che prendano parte a questo “allarmismo d’importazione” anche menti illuminate, scrittori, intellettuali e saggisti che stimo e con i quali sono peraltro spessissimo d’accordo, a volte riportando dei fatti accaduti in Usa in maniera non accurata (come gli Aristogatti censurati nel caso del saggio di Siti) o non rilevanti (come quello della professoressa di Philadelphia che ha definito l’Odissea sessista, che compare nel suo libro e che continuo a ritenere un fatto non degno di nota).

Ma nel complesso, e mi spiace non aver avuto lo spazio per sottolinearlo – visto che il mio articolo era su altro – condivido pienamente il suo discorso sulla necessità di comparazione antropologica, le idee espresse a proposito delle polemiche seguite alla traduzione delle poesie di Amanda Gorman, l’approccio al problema per la “via di cresta”. Mi rammarico quindi che, nel citare quel passaggio insieme ad altri, funzionali alle mie argomentazioni, si sia creato l’effetto “bambino gettato con l’acqua sporca” e quelle poche righe su una pagina del suo libro si siano trasformate in una stroncatura ingiusta. Non lo era.

Trovo il suo saggio e anche il suo articolo tutt’altro che in contrasto con le mie idee per cui certi fenomeni di cui si parla molto in Italia con preoccupazione, non sono nostri. Come ben spiegato nel pamphlet infatti, fenomeni come decolonizing classics, l’ipotesi di aggiungere dei trigger warning ai testi greci e latini sono ancora completamente appannaggio della cultura americana, e la quasi totalità degli esempi che porta in questo senso vengono infatti dalle università statunitensi.

Anche lei sottolinea come gli attacchi alla cultura classica che reclamano addirittura la sua soppressione sembrano ancora molto lontani dal nostro presente locale, dove invece – come spiega in maniera illuminante nel capitolo “Ragione e stereotipi” – da noi prevale ancora la neutralizzazione o naturalizzazione dello sguardo su pratiche e visioni del mondo antico (come lo schiavismo o la violenza sulle donne) oggi in teoria inaccettabili.

Esagerato allarmismo

Quello che ho sottolineato nel mio articolo era dunque lo stupore nel constatare che in Italia sembra quasi si stia su più fronti organizzando una resistenza contro nemici “moralizzatori e cancellatori” che pare abbiano già invaso le nostre scuole, le nostre biblioteche, i nostri media, mentre in realtà non sono ancora neanche vicini al nostro confine. E questa iperattenzione su quanto accade nel mondo anglosassone mi pare distolga troppo spesso lo sguardo e le energie dai reali problemi – di segno diametralmente opposto – che abbiamo in Italia nel mondo scolastico, accademico e mediatico.

Cito una sua frase del suo pamphlet proprio perché è chiaro che neanche per lei la questione è trascurabile, «per il momento l’Italia non conosce neanche lo ius scholae»; allora perché a fronte di questo tema gigantesco e fondamentalmente trascurato ci fa tanto discutere una professoressa di un piccolo liceo del Massachussets che ha definito Ulisse “trash”? Non è una domanda rivolta solo a lei, è una domanda che pongo nell’articolo e sulla quale credo, come lei suggerisce a più riprese nel suo saggio, valga la pena continuare a dialogare.

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